Ipotesi per una poesia incivile. Nota di lettura a Istruzioni alla rivolta di Davide Galipò
by Adriano Cataldo
Istruzioni preliminari: “il nostro mondo sta scomparendo”.
(Nanni Balestrini)
“Prepariamo un miracolo più grosso/
ed istruzioni per una repressione più o meno immaginaria”
(Luigi di Ruscio)
Gli esempi mostrati in esergo possono farci capire quanto non sia nuovo l’utilizzo del termine Istruzioni nella poesia italiana più o meno recente.
La felicità del titolo dell’ultima raccolta di poesia di Davide Galipò (Istruzioni alla rivolta, Eretica 2020) consiste in prima istanza in un collegamento con precedenti posture poetiche, probabilmente non casuale, che salta agli occhi e prepara un campo semantico. Ci si trova di fronte a una raccolta disturbante. Lo si capisce da subito, dal collage che apre la raccolta, dove si legge nel turbine di lettere e parole che “odiare è umano”. Una definizione che poco spazio lascia a un più confortante e autoassolutorio errare è umano. Si potrebbe in effetti leggere tutta la raccolta di Galipò come un assalto all’umano, nella misura in cui quest’ultimo sia inteso come sinonimo di buono, civile, etico.
La felicità del titolo della raccolta contiene in seconda istanza una sconfitta, che scopriremo essere altrui: quella di chi crede nell’esistenza di un afflato civile per la poesia, o peggio, ne immagina una funzione curativa.
Come scrive sapientemente Carmine Mangone nella prefazione al volume, i testi di Galipò sembrano soprattutto “istruire uno spazio, un territorio, delle linee di fuga per sottrarsi ai luoghi comuni degli odierni concatenamenti sociali e tecnologici”.
Da questa prospettiva, le istruzioni di Galipò sono da intendersi su due livelli.
In primo luogo, nell’ “istruzione di uno spazio”, è posta una forte enfasi sulla prassi. Un aspetto che è confermato nella scelta della citazione in esergo, tratta da Il mito di Sisifo di Albert Camus:
Viene sempre il momento in cui bisogna scegliere
fra la contemplazione e l’azione.
Ciò si chiama diventare un uomo.
Una presa di posizione non-contemplativa che si evince ovviamente anche dalla modalità espressiva dei versi, che sembrano fatti per essere letti ad alta voce, megafonati.
Sovvertiamo questa celia!
Correggiamo quest’errore!
Abbiamo sofferto, per evolverci,
rinunciando alle antiche passioni
– la sete di dominio,
l’istinto alla caccia, all’espansione –
stati d’agitazione hanno portato
a ribellarci a millenni di morale
per costruir le tombe del potere
e adesso – di nuovo schiavi,
piccoli, terreni, come egiziani
– di profilo – cavalli di legno
e di segatura, senza redini.
La proposta di Galipò parte quindi dal legame tra attività poetica e politica. Non è però intesa qui la politica in quanto somma delle soluzioni a una serie di problemi. Le Istruzioni non vanno lette in quanto chiamata alla rivoluzione oppure alla rivolta sociale. Mangone sottolinea che le Istruzioni alla rivolta non intendano “catechizzare il lettore”, perché non c’è “la pretesa di propinare una ricetta infallibile per risolvere le contraddizioni”. Galipò prende infatti atto dell’omologazione che pervade il suo tempo e il suo spazio:
Il conservatorismo, qui, non ha fatto prigionieri:
l’abbiamo digerito, imbastito, fatto nostro
reso consueto, comune, circostanziale.
(…)
Qui scorrono ore come se fossero anni
e a nessuno, pare, importi degl’inni autoritari
e delle braccia tese, nel rancore tricolore
nelle piazze, nei palazzi, s’odono voci simili a cori
e ora sì, ci apprestiamo a diventare tutti uguali
asserviti all’ignoranza, nel collaborazionismo
dei nostri giorni felici
Omologazione in parte inevitabile, visto lo scompenso di forze tra le masse e le strutture economico-politiche imperanti. La poesia in quanto visione sul reale non può che prende atto di questa omologazione e ha di fronte a sé poche alternative: adeguarsi oppure provare a rompere uno schema:
…Prendi un oggetto
(o ciò che ne rimane) e rompilo in terra:
non siamo niente più
di questi cocci sparsi:
possiamo ancora scegliere – di perderci.
Una rottura su più fronti: scardinare dapprima lo spazio e successivamente rompere il linguaggio, le pratiche scrittorie e performative. Deve rompere un flusso, non deviarlo.
In questo, tornando a Camus, la rivolta intesa da Galipò è quella de L’uomo in rivolta, in particolare La rivolta nella poesia. Una rivolta metafisica, che è però consapevole della probabilità di una sconfitta:
Il fatto è, mio vecchio,
che ci accingiamo ad usurpare il posto di chi, invero,
fu disposto anche a morire per la sua Rivoluzione:
benché ci dia diletto pensare d’esser come loro,
sopravvivremo, nostro malgrado, a questo mondo
ché di esso siamo figli e ad esso infami torneremo.
Ma la follia è da pagar cara – come la solitudine,
del resto – generata (e non genetica)
dal troppo lauto prezzo.
Perciò brindo: a ciò che siamo stati,
a ciò che non saremo.
I testi di Galipò, e buona parte della sua attività artistico-politica, sembrano porsi come risposta vivente e negativa a quanti vogliano oggi riportare in auge la poesia civile. Lo si è visto recentemente nel breve ubriacamento dovuto alle esibizioni di Amanda Gorman alla cerimonia di insediamento della presidenza Biden e al Super Bowl. Un ubriacamento che ha celebrato una poesia assolutoria, evocativa di tempi migliori, felice di integrare minoranze sapientemente selezionate. A ben guardare, una poesia capace soltanto di tessere le lodi all’industria culturale egemone. Civile, quindi, in quanto complice di un sistema di potere. Civile infine, in quanto voce della civiltà intesa come mistura di interessi economico-politici. Una civiltà che di contro, nelle Istruzioni alla rivolta è il problema di partenza, lo stato delle cose da affrontare. I testi di Galipò ci ricordano, ci suggeriscono, la possibilità una poesia incivile, non vateggiante, che non fornisce soluzioni e soprattutto alibi.
Una poesia incivile, che parte dalla prassi, dall’agitazione poetica e culturale che corrisponde all’azione politica, necessariamente marginale e subalterna. Un pensiero meridiano, felice dei giorni di tempesta. Una poesia incivile che è agitata e che agita. Una poesia che è agitata e agita con cautela, senza enfasi sulle potenzialità dell’umano, senza proiettarsi in un futuro radioso, guardinga verso i gruppi sociali, perché in essi si trovano i germi di un’omologazione che vanificherebbe la rivolta. Si agita e agita questa poesia incivile, con cautela, perché correrebbe il rischio di essere omologata, routinizzata, vanificandosi.