Vincenzo Agnetti e Paolo Scheggi: Un Confronto lungo una Vita
by Giovanni Cardone
In una mia analisi storiografica e scientifica dedicata ai nuovi linguaggi dell’arte contemporanea ed in particolar modo sulle neo-avanguardia che negli Sessanta e settanta del secolo scorso hanno influenzato tantissimi artisti tra cui Vincenzo Agnetti e Paolo Scheggi. Penso che l’esperienza estetica si è contraddistinta in questi ultimi anni certamente è possibile ritrovare nel multiforme panorama dell’Arte concettuale un movimento nato intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento con l’intenzione di spostare l’attenzione artistica dalla dimensione sensibile ed emotiva al piano concettuale. Nel fare ciò l’artista assunse un atteggiamento di tipo analitico, spostando in questo modo i procedimenti del fare artistico dal piano espressivo o rappresentativo, a quello riflessivo di ordine metalinguistico. Attraverso questo spostamento, l’artista fu chiamato ad impegnarsi nella costruzione di un discorso sull’arte a partire proprio dal momento stesso in cui iniziava la sua produzione artistica. In aggiunta, l’investigazione concettuale, nello specifico, si servì del linguaggio come strumento indispensabile per risalire dal dato sensibile a quello astratto, dalla fisicità della cosa ai procedimenti mentali che sottendono ad essa per arrivare a comprendere ciò che sta a monte della formazione dell’arte. All’insieme di questi meticolosi processi si interessò in particolar modo Joseph Kosuth, padre dell’Arte concettuale, che si rivela essere quindi, in questo orizzonte di ricerca, una figura emblematica per comprendere l’evoluzione di tali questioni. L’artista infatti elaborò nella sua poetica un abile intreccio atto non solo a svelare la natura dell’arte, come sottolineò fin dai suoi primi scritti, ma anche a penetrare nelle dinamiche che si celano nella società contemporanea, frutto delle relazioni di potere e mercato, figlie della società capitalista, impegnandosi inoltre nel ridefinire il ruolo dell’artista, non soltanto mero esecutore ma soggetto attivo nella ricerca del significato dell’arte. In aggiunta, Joseph Kosuth elaborò un forte dissenso nei confronti di tutta quella sfera di critici e intermediari dell’arte che professavano valori autentici, a favore di un’arte alta; nonostante ciò, tuttavia, le sue riflessioni presentano nella loro essenza molteplici contraddizioni che sottolineano ambigue aderenze proprio a quel sistema che lui stesso mise in discussione sin dall’inizio della sua carriera. Tali questioni presero voce quindi a partire dai suoi primi scritti, ed in particolar modo nella vivace critica che l’artista mosse contro il formalismo del critico statunitense Clement Greenberg. Nel 1969 Joseph Kosuth scrisse: ‘L’arte dopo la filosofia’ da qui nasce il significato dell’arte concettuale testo fondamentale per comprendere il fare dell’artista fin dai suoi primi albori. All’interno dello scritto emergono alcune questioni molto importanti riguardanti la funzione specifica dell’arte, la sua vitalità e la conoscenza più precisa del termine “Arte concettuale”. Il concetto più importante che emerge da questo scritto e che accompagnerà Kosuth in tutto il suo percorso è l’idea che l’arte sia una tautologia linguistica: in questa prima fase della sua carriera l’opera d’arte quindi non fornisce informazioni di nessun tipo sull’esperienza concreta; essa è soltanto una presentazione dell’intenzione dell’artista, ovvero una proposizione linguistica presentata nel contesto dell’arte a commento sull’arte. Solo in questo modo infatti, secondo il padre del Concettualismo, l’arte si poteva allontanare da errate supposizioni filosofiche, prendendo pertanto le distanze dalla concezione di arte formalista che era stata elaborata dal critico Clement Greenberg per cui l’arte e l’estetica erano la stessa cosa. Infatti, l’arte e la critica formalista accettavano secondo Kosuth una definizione di arte fondata unicamente su basi morfologiche in questo modo l’arte era semplicemente decorazione e puro esercizio estetico.
Agli esordi della sua carriera, infatti, l’artista concettuale considerò l’arte e l’estetica così come due categorie separate, poiché secondo il suo punto di vista l’estetica si occupava essenzialmente della percezione; quest’ultima pertanto, secondo Kosuth, rimaneva su un livello estraneo alla funzione o ragion d’essere dell’oggetto di cui invece l’arte si sarebbe dovuta occupare, ovvero l’arte stessa. È chiaro quindi come in queste affermazioni Kosuth si riferisse in modo specifico a Clement Greenberg e a tal proposito si osservi perciò la parte del testo in cui l’artista sostiene che: “la nozione che esistesse un legame tra arte e estetica non è vera. Fino ai tempi più recenti questa idea non è mai entrata nettamente in conflitto con considerazioni artistiche, non solo in ragione delle caratteristiche morfologiche dell’arte che perpetuavano questo errore, ma anche perché le altre apparenti “funzioni” dell’arte e di raffigurare temi religiosi, ritrattistica di aristocratici, rappresentazione di particolari architettonici, ecc… usavano l’arte per mascherare l’arte”. Da queste parole si può evincere come l’artista non riuscisse a vedere nell’estetica una via per conoscere la funzione dell’arte, a meno che, così come egli sottolineò in un passo successivo, la ricerca non seguisse le orme tracciate da Greenberg, ovvero qualora essa si fosse rivolta soltanto agli aspetti percettivi dell’arte, che Kosuth considerava meramente estrinseci. In quel caso però l’indagine sulla funzione e sulla definizione si sarebbe comunque basata soltanto ed esclusivamente sulla morfologia senza accedere a un significato più profondo. Alla luce di ciò, a parere dell’artista, la critica formalista promossa da Greenberg non era in grado di aggiungere una nuova conoscenza alla comprensione della natura o funzione dell’arte, poiché si distingueva esclusivamente per essere un’analisi accurata degli attributi fisici degli oggetti che casualmente venivano posti in un certo contesto morfologico. Su questa scia quindi l’arte si poteva definire tale solo in virtù della sua rassomiglianza alla forma e a opere d’arte più antiche appartenenti al passato. Quanto sostenuto dal padre del concettualismo giunge a noi in tutta la sua forza e influenza, e proprio per questo risulta necessario osservare con più precisione ciò che venne messo in luce nel testo preso in considerazione. Infatti, tali affermazioni acquistano pienamente senso solo se relazionate in maniera opportuna con quei punti focali attorno a cui l’artista fa ruotare l’evoluzione della sua riflessione, cioè la discussione sulla natura dell’arte e sul ruolo dell’artista. A questo riguardo, fin dai suoi primi scritti, Kosuth affermò che essere un artista significava mettere in discussione la natura dell’arte poiché solo attraverso ciò si poteva arrivare a comprendere la sua funzione. Gli artisti dovrebbero quindi adempiere a questo compito, sebbene i critici e gli artisti formalisti non fossero a suo modo di vedere assolutamente in grado di calarsi in questi aspetti cruciali per la ricerca artistica. Essi infatti, a suo parere, sceglievano quali lavori si potevano considerare arte e quali invece no, soltanto attraverso la forza della loro autorità aderente al sistema. Nella prospettiva concettuale invece l’opera di Marcel Duchamp che rappresentava un importante esempio di cambiamento della natura dell’arte poiché con l’avvento del ready made si passò dalla mera questione morfologica alla questione funzionale portando quindi a compimento quel passaggio essenziale dall’apparenza delle cose alla loro concezione. Inoltre, per comprendere il concetto di tautologia promosso da Joseph Kosuth è necessario osservare alcune questioni importanti che si legano agli intrecci che corrono tra l’arte e l’universo del linguaggio. L’artista, all’inizio della sua carriera, sostenne, esplicitandolo poi chiaramente nelle sue prime opere, che l’arte sarebbe composta da un insieme di proposizioni analitiche nella forma di tautologie in cui l’arte è sia il soggetto che l’oggetto della predicazione, che possono trovare il loro senso solo e unicamente nel contesto dell’arte stessa, lontano dai dati concreti dell’esperienza. Il prodotto artistico poteva essere concepito come una tautologia: l’idea che l’arte consista in una proposizione sull’arte medesima portava con sé l’assunto che si potesse valutare qualcosa come arte senza uscire dal contesto artistico. Secondo questo meccanismo l’arte quindi non avrebbe niente a che vedere con l’esperienza e le sue infinite sfaccettature, in particolare con l’esperienza percettiva, poiché la validità delle proposizioni costituenti l’arte non deriverebbe da presupposti empirici o fattuali ma linguistici, che possono essere ricondotti a logiche esatte e definite. Tuttavia, affermare ciò significava chiudere l’arte in un sistema vero a priori, evidenziando come la verità dell’oggetto dell’arte fosse astratta e lontana da ogni implicazione ricettiva e di percezione. Tutto ciò, se visto in una prima e sfocata luce, potrebbe apparire chiaro e privo di dubbi; tuttavia, confrontando le prime affermazioni risolute dell’artista con la critica alle tesi promosse da Clement Greenberg, insieme al contesto culturale che portò Kosuth all’elaborazione di tali considerazioni, la prima impressione tende a mutare fino ad assumere i toni divergenti di una interpretazione più complessa e sfaccettata. Infatti, affermare che l’arte si possa ridurre soltanto a pure idee e contenuti mentali, nei quali ciò che conta è soltanto il linguaggio che li esprime e quindi rinunciare ad un’arte che sia anche emozione e partecipazione -, era in verità una scelta precisa per criticare il sistema dell’arte del tempo e i modelli di sviluppo proposti dal consumismo di origine capitalista. Tutto ciò aveva chiari legami con motivazioni sociali e politiche, poiché negando o minimizzando il prodotto consumistico si voleva delegittimare anche la società capitalista che l’aveva concepito. La voce di Kosuth, quindi, deve essere inserita in questo preciso contesto, che si mostra a noi come un quadro drammatico in cui gli artisti concettuali anziché dipingere prospettive nuove e alternative alla realtà cercarono di annullare l’oggetto stesso dell’arte con l’illusione che ogni espressione artistica sarebbe potuta nascere e morire soltanto nella mente di chi l’aveva concepita. Inoltre, il movimento dell’Arte concettuale e quanto sottolineato da Joseph Kosuth, fu determinante per comprendere una questione aperta tutt’oggi sul rapporto tra l’opera d’arte e i contesti istituzionali che accolgono e legittimano la produzione artistica. Il movimento, infatti, nel suo procedere, riuscì a porre un’attenzione specifica sulla modifica dello statuto dell’oggetto artistico, sul rimodellamento delle strategie espositive e sulla ridefinizione del rapporto tra arte, critica e informazione. Fu probabilmente proprio per il fatto che gli artisti toccarono tematiche così delicate che non furono accettati fin da subito dalla critica dominante, proprio come sottolineato da uno scritto di Kosuth comparso nella rivista The Fox nel 1975. Secondo l’artista, infatti, la gang di Greenberg era piuttosto scettica verso i nuovi artisti degli anni Sessanta e inizi Settanta non inquadrabili con la loro produzione nella continuità della storia che era invece tanto cara ai formalisti. La distanza tra Arte concettuale e formalismo fu caratterizzata da svariati fattori, le differenze furono notevoli. Tuttavia, si possono rintracciare connessioni, influenze e relazioni tra quanto sostenuto da Kosuth con la sua idea di arte come tautologia e il formalismo di Greenberg. Infatti, il critico d’arte statunitense, così come l’artista concettuale, si interessò allo statuto epistemologico della natura dell’arte indicando tuttavia un approccio differente da quello concettuale, che doveva essere rivolto alla ricerca sul mezzo artistico piuttosto che sui concetti. Nonostante ciò, anche Greenberg considerò la tendenza all’astrazione un carattere distintivo dell’arte nonché un passaggio necessario per l’evolversi della riflessione sul fare artistico. Alla luce di ciò, la funzionalità dell’arte era connessa alla riflessione sul medium poiché era proprio tramite questo, secondo il critico, che era possibile individuare la specificità e l’identità dell’arte stessa. Tali considerazioni si inserirono in una cornice che dava loro senso poiché orientata verso l’idea che potessero esistere dei valori oggettivi e definitori nel campo artistico, ciò quindi legittimava la volontà di eliminare da ogni disciplina artistica tutti gli effetti che non le appartenevano per essenza. Quindi l’analisi di Greenberg, che fu indirizzata soprattutto a ridefinire il termine modernismo come corrente storica e posizione estetica, fornì una chiave di lettura interessante basata però strettamente sull’importanza della nozione di medium, insieme a quella di astrazione, di piattezza della superficie e di bidimensionalità, termini che, per essere compresi, necessitano di essere letti all’interno di un adeguato contesto di riferimento, ovvero, quello della ricerca e dell’analisi che il critico condusse sul modernismo nell’ampio ventaglio delle sue molteplici sfaccettature. Osservando pertanto il percorso tracciato da Clement Greenberg è possibile notare come la riflessione sul concetto di modernismo giocò, nell’evoluzione del suo pensiero, un ruolo di straordinaria importanza, insieme all’analisi che rivolse alle avanguardie artistiche dalla seconda metà dell’Ottocento in poi. In questa visione si rivela allora necessario comprendere che cosa il critico intendesse con il termine modernismo, per riuscire a svelare le dinamiche e gli intrecci con il pensiero di Kosuth. Innanzitutto, secondo Greenberg, la nozione di modernismo non comprendeva soltanto il terreno delle arti o della letteratura, ma la quasi totalità di ciò che è vivo nella nostra cultura; inoltre, a differenza di quello che si potrebbe comunemente pensare associando il termine a quello di modernità, secondo Greenberg, il modernismo non fu interessato a rompere con il passato ma rappresentò piuttosto la sua evoluzione. In questo modo, l’arte del presente era legata indissolubilmente con tutto ciò che era avvenuto prima, ed era obbligata a mantenere determinati standard di eccellenza che il passato aveva precedentemente tracciato. Su questa scia si ricorda la posizione critica di Greenberg nei confronti di Marcel Duchamp, della Pop Art e del Minimalismo che, a suo parere, non rappresentavano alcuna sfida positiva alla categoria del gusto, poiché si ponevano al di fuori di queste dinamiche. Quindi gli aspetti più significativi che tessono un filo conduttore tra quanto sostenuto da Kosuth nel suo L’Arte dopo la filosofia. Il significato dell’Arte Concettuale e le tesi di Greenberg, gettano le loro basi in alcune questioni messe in luce dal critico nella sua riflessione sul concetto di modernismo. Nonostante nel suo testo d’esordio il padre del concettualismo abbia fortemente criticato la posizione formalista dello studioso americano, in verità alcune questioni sembrano essere molto vicine ai punti di vista di entrambi. Si osservano ora alcune concezioni importanti rispetto al pensiero di Clement Greenberg per poi cercare di svelare i punti di contatto tra il critico e l’artista. Vincenzo Agnetti artista, saggista e scrittore la sua arte nasce dall’incontro con Giorgio Strehler, mente le sue prime ricerche in ambito pittorico riguardano l’Informale nel contempo Agnetti percepisce il limite del mezzo pittorico ancora prediletto se ne allontana preferendogli la produzione poetica e critico-letteraria. Tra gli anni 1950 e 1960 instaura un rapporto di amicizia con Enrico Castellani e Piero Manzoni che insieme ad Agostino Bonalumi, danno vita al gruppo artistico Azimut punto di riferimento per le sperimentazioni più avanzate nella Milano dell’epoca, e alla quasi omonima rivista Azimuth. Nel 1962 si trasferisce con la famiglia in Argentina, dove resta fino al 1967, questo periodo della sua vita è definito Arte no oLiquidazionismo si caratterizzata da una quasi totale assenza dal mondo dell’arte, prima assiduamente frequentato, se non fosse per alcuni sporadici contatti epistolari mantenuti con le sue personali conoscenze a Milano. Numerosi sono i quaderni, intitolati Assenza, le pagine di appunti prodotte come un fiume in piena di idee e progetti, caotiche, disorganiche quanto granitiche, pensieri depositati e mai più toccati, frutti di un’incessante attività di scrittura, come ricorda la figlia Germana, di quegli anni in Argentina. Le duemila pagine scritte portano in seno il concetto di dimenticato a memoria. Un ossimoro, inconciliabile nelle sue parti, paradossale alla stregua della vita. Ricordare e dimenticare, come avviene per la cultura che è l’apprendimento del dimenticare; come si fa con il cibo dopo averlo ingerito se ne perde il sapore per lasciar spazio all’energia. Nei diari, cimeli indecifrati di quegli anni fuori dall’Italia, risiede lo sfogo di una mente in continua ebollizione, che produce e poi rimuove, che scrive e poi cancella. È in atto, in Agnetti, una ricerca artistica che va oltre il puro colore, il rapporto con la tela o l’energia sprigionata in un gesto. Le sue attività si coagulano nella necessità di liberare la mente, spaziare verso nuove possibilità non ancora calpestate. Il valore dell’opera d’arte non è più dato dalla componente fisica e materiale, ma dall’impalpabile presenza dell’idea. Piero Manzoni, padre di un concettuale ante litteram, pone l’accento sulla possibilità di guardare alla superficie della tela con estrema autonomia e autodeterminazione, verso uno spazio non tanto infinito quanto infinibile, come da lui definito, e altrettanto tale è anche il colore nell’uso che se ne fa nei monocromi: “una superficie d’illimitate possibilità è ora ridotta ad una specie di recipiente in cui sono forzati e compressi colori innaturali, significati artificiali. Agnetti inizia a produrre opere varie, tasselli di filoni diversificati, ove spesso cede il posto alle parole per esprimere immagini, come per esempio in Ritratto.
Chiuso e ucciso da una vita meravigliosamente non capita feltro inciso e dipinto risalente al 1971, tragico testamento del dramma umano. Tematica sicuramente nelle corde dell’artista, l’opera tratta della continua e costante riflessione che soffoca e opprime l’uomo dalla notte dei tempi, dove conta più dove andiamo che da dove veniamo, in cerca di sicurezze in una vita che si veste invece di sublimi incertezze. Figurativamente siamo chiusi in un labirinto senza un’uscita che possa dirsi veramente sicura, dove l’unica possibilità di evasione è la morte, schiacciante mistero e punto d’arrivo verso l’ignoto, ma dalle parole di Agnetti emerge un rassicurante meravigliosamente alla fine dei nostri giorni, lasceremo questo mondo con un sorriso sulle labbra, perché nonostante tutto è stato bello vivere senza capire. L’incredibile capacità di Agnetti, in tali creazioni, risiede, a mio avviso, nella sapienza con cui, nello scegliere ed accostare le parole, riesca a dar vita e forma ad immagini che nitidamente appaiono nella mente dell’osservatore, che ne stimolano l’interiorità, perché possa guardare all’opera come ad un racconto coinvolgente. Alla Galleria Blu di Milano, nel 1970, ha luogo la mostra che inaugura la serie degli Assiomi, anche se l’artista ne fa risalire la produzione, o comunque lo studio, dal 1968. Sono opere composte da lastre di bachelite nera, incise e trattate con colori ad acqua o nitro e riportanti frasi tendenzialmente tautologiche o contraddittorie. Vi si coglie una volontaria serietà e un rigore di fondo dati sia dal carattere quasi scientifico che utilizza (servendosi di linee, punti, grafici e numeri), sia dal materiale stesso che nella sua freddezza rispecchia perfettamente il processo mentale che dietro vi si cela. Lastre statiche e dall’importante peso visivo, blocchi neri che conducono l’occhio dell’osservatore verso le profondità di un universo impenetrabile. Evidenti quindi i caratteri che differenziano gli Assiomi dai Feltri, che al contrario presentano frasi di tipo letterario-poetico, accostate a un materiale molto più morbido e caldo. E poi il teatro. Chiave di volta di tutto il suo operato. Agnetti è infatti assolutamente, magnificamente teatrale nell’allestimento materiale nell’utilizzo delle parole, in ogni caso sempre scenograficamente d’effetto. Ne fa un filone della sua produzione: il Teatro Statico. Opera certamente rappresentativa è Progetto per un Amleto politico, esposta per la prima volta nel 1973 presso la Galleria Forma di Genova. Agnetti occupa l’ambiente in questione, dando vita a un’installazione, o impianto, termini che ricorrono spesso quali definizioni dei suoi lavori, come nell’Elisabetta d’Inghilterra del 1976. Pone al centro un palchetto, statico e scultoreo, pronto ad accogliervi qualsivoglia narratore o decantatore, ma che per l’interezza della sua esistenza rimane vuoto, circondato, nel perimetro della stanza, da bandiere e scritte e accompagnato dalla voce dell’artista che onnisciente risuona mentre pronuncia serie di numeri. Chiaro punto di partenza, da cui Agnetti muove verso la definizione di un processo concettuale, è il dramma seicentesco di William Shakespeare. Al principio vi è Amleto, emblema dell’uomo moderno, dubbioso e calcolatore, rappresentante dell’uomo qualunque, come dice Giorgio Verzotti; vi è il suo monologo e soprattutto la forza introspettiva che da esso scaturisce. Ma un uomo che, solitario, parla a sé stesso, frappone inevitabilmente il proprio io al contatto diretto con il pubblico, e mette in scena un discorso privo di un significato che possa dirsi comprensibile ai più, e anzi sensato solo nella mente del dicitore. Agnetti desidera ridefinire i caratteri del personaggio, rimodellarlo perché possa fuoriuscire dalla gabbia della propria maschera, dall’insensatezza delle proprie emozioni, per incontrarsi con lo spettatore. Spoglia perciò Amleto delle sovrastrutture che da anni ne dominano la rappresentazione e lo porta a parlare rivolgendosi “al pubblico per il pubblico e non a sé stesso per il pubblico”, come scrive Agnetti in Tradotto, azzerato, presentato del 1973, concetto avvalso anche tramite il pensiero di Oscar Wilde: “Oscar Wilde diceva che non si può evitare il futuro; il futuro del teatro è la sua scomparsa a favore dello spettatore”. Ciò che muove l’artista è quindi la ricerca di quel punto d’incontro fra individui, apparentemente perduto, acquietando la spasmodica ricerca di un linguaggio che possa ritenersi veramente universale, per soddisfare il bisogno di sentirsi capiti e di capire. Ma un monologo, privato della propria carica emozionale, diviene semplice discorso, che intrinsecamente tende alla ricerca di approvazione, come nei politici: cibo per l’anima da ritrovarsi non più negli applausi, come un vero mattatore, ma nei voti. Quanto compiuto non può dirsi ancora completo, occorre che un gradino in più sia salito, perché la fredda affermazione sostituita alla dubbiosa introspezione genera inevitabilmente un comizio. Quest’ultimo ben si adatta al palchetto posto al centro dello spazio espositivo, come se tutt’intorno fosse gremito da una folla pronta a esprimere il proprio consenso, ma mal si addice all’esigenza di ritrovare un contatto vero e sincero, avulso da qualsiasi strumentalizzazione, con il pubblico. A conti fatti il vero problema non è da riscontrare, perciò, in Amleto come persona e personaggio, ma nel medium utilizzato, nel metodo scelto per rivolgersi all’osservatore, perché come dice Agnetti, “una parola vale l’altra ma tutte tendono all’ambiguità” e se vi è ambiguità non può esservi naturalmente comprensione; è quest’ultimo, perciò, il fulcro intorno cui verte l’intervento trasformativo attuato dall’artista: la ricerca della comprensione. Certo il compito è arduo, se non totalmente impossibile, poiché risulta quasi utopico pensare che due parti di un discorso, due distinti interlocutori, possano giungere ad una completa intesa. Anche Pirandello lo spiega in Sei personaggi in cerca d’autore: “Crediamo di intenderci; non c’intendiamo mai!” Atto ultimo: i numeri. Le parole, mezzo radicato nella soggettività, sono svuotate di significato e significante, sostituite da mere e oggettive cifre: eccole quindi giunte, nuovo esperanto, come unico linguaggio che possa dirsi veramente universale, ma al contempo indecifrabile; di vivo, resta solo l’intonazione. Il tutto è paradossale, ridondante circolo infinito privo di un risultato soddisfacente; non vi è soluzione, poiché non vi può essere un vero linguaggio universale se non con un pizzico di sentimento che ci rammenti l’importanza del contatto umano e che ad esso possa essere riferibile, ma neanche un linguaggio particolare veramente condivisibile. A questo punto Amleto non conta più, né lui, né il suo monologo, né tanto meno il suo ruolo nel teatro; chiunque potrebbe pronunciare quei numeri e proprio per questo il suo personaggio scompare, lasciando il palco vuoto e una voce a farne le veci. Parola, performance, installazione: Agnetti scrive, parla, abita l’arte in molteplici forme e sfumature, crea tutto ciò che può essere plasmato e vive spazi e tempi generati ma sempre esistiti negli angoli dell’inconscio. Mentre Paolo Scheggi tra gli anni Sessanta e Settanta essendo un artista che ha una visione interdisciplinare dell’arte egli passa dall’architettura alla moda, Scheggi parte dalle premesse di Lucio Fontana realizzando i primi dipinti monocromi e al tempo stesso maturando, come l’artista italo-argentino, l’idea di un’espansione “ambientale” dell’opera, non più relegata alla superficie bidimensionale ma articolata e integrata nello spazio. Nel 1966 una mostra alla galleria Arco d’Alibert a Roma riunisce le opere di Paolo Scheggi, Agostino Bonalumi ed Enrico Castellani, alle quali il critico Gillo Dorfles attribuisce la definizione di “pittura-oggetto”: pur riferendosi alla dimensione del quadro, le ricerche di questi artisti sono accomunate dalla trasformazione della tela, che non è più semplice supporto per la stesura pittorica ma elemento strutturale, non più superficie ma appunto oggetto che rivendica la sua tridimensionalità. In tal senso sono esemplificative le Intersuperfici che Scheggi realizza dalla metà degli anni Sessanta, tra le quali Intersuperficie curva del 1967 realizzata a monocromo blu. Costituiti dalla sovrapposizione di tele, questi lavori sono caratterizzati da una modularità rigorosa e da una serie di aperture circolari che, risultando sfasate tra un piano e l’altro, provocano un senso di instabilità ottica. Con le Intersuperfici Scheggi sperimenta la relazione tra diversi livelli di spazialità: nella particella “inter” si nasconde l’idea di attraversamento, dello sguardo e dell’opera stessa, che interagisce in modo inatteso con lo spettatore, attivando le sue facoltà percettive. Lo stesso prefisso sarà utilizzato dall’artista per i suoi interventi di carattere ambientale, tra cui l’Intercamera plastica del 1967, che sancisce il punto di approdo nel processo di conquista dello spazio. L’opera non è più un oggetto da guardare ma un’esperienza da vivere: le opere di Scheggi si presentano come “operazioni spaziali dove lo spazio non è più inteso come luogo reale e logico, ma come campo la cui caratteristica essenziale è di trasformare le forme da puri concetti in ‘concetti spaziali’, che definiscono lo spazio costituendosi in esso come elementi di coordinazione della nostra esistenza” come scriverà Germano Celant nel 1966. A Napoli Scheggi è presente in due importanti occasioni: nel 1969 la Modern Art Agency gli dedica una mostra in cui sono presentate le sue Intersuperfici curve, mentre nel 1974 la galleria Il Centro espone le sue opere, rendendo omaggio all’artista prematuramente scomparso. Il rapporto che Paolo Scheggi avrà con lo spazio urbano si articola lungo un percorso che lo porterà da una prima matrice pittorica e oggettuale a sperimentazioni architettoniche e teatrali, che culmineranno negli ultimi anni della sua carriera nella progettazione di performance messe in scena negli spazi della città. Già agli albori della sua pratica Scheggi mostrava un profondo interesse verso un approccio interdisciplinare all’arte, che gli permise di entrare sempre più in relazione con lo spazio entro quale la sua opera si iscriveva e con un pubblico sempre meno distante da essa. Tra il 1964 e il 1965 collabora a Milano con la Nizzoli Associati, storico studio d’architettura milanese che si approcciava alla progettazione in senso “neo-umanista” la cui volontà era quella di creare un rapporto tra uomo e architettura per un “rinnovamento della società”. Grazie a questa esperienza Scheggi acquisisce conoscenze specifiche nel campo della tecnica urbanistica, tanto da influenzarne le successive produzioni. Dalla sua ricerca in campo architettonico nascono il primo ambiente ‘Intercamera plastica’ del 1967 e il primo intervento architettonico ‘Cannocchiale ottico’ percorribile del 1968. In entrambi i casi, l’artista ricerca un rapporto altro con il pubblico, vuole che questo penetri la sua opera, che la esplori e che ne faccia esperienza diretta. Il fermento del biennio 1968-1969, tanto per la società italiana, quanto per quella internazionale, portò con sé nuove attitudini che aprivano a contaminazioni tra varie discipline, e quindi nuove proposte nel campo dell’arte, dell’architettura, del cinema, delle attività teatrali e della danza. È proprio durante questi anni che Scheggi si avvicina all’esperienza teatrale e alla progettazione di spettacoli e performance che si distaccavano dalla “dimensione separata” del museo che nella lettura di Agamben “nomina semplicemente l’esposizione di una impossibilità di usare, di abitare, di fare esperienza”, guardando al teatro e agli spazi dell’esperienza diretta, quelli della strada e dell’urbano. Tra i primi passi verso la dimensione teatrale intrapresi dall’artista ricordiamo l’installazione immersiva Interfiore, realizzata per la rassegna Teatro delle Mostre, nel 1968 a Roma. Tuttavia, il vero punto d’incontro tra Scheggi e il mondo del teatro fu l’incontro con il drammaturgo Giuliano Scabia con il quale realizzò una serie di interventi plastico-visuali per lo spettacolo Visita alla Prova dell’isola Purpurea di Bulgakov e Scabia presso il Piccolo Teatro di Milano. Questi interventi indagavano la possibilità di riscrittura del set scenografico, andando contro «la voluta staticità macchinistica e tradizionale dello spazio del palcoscenico» Paolo Scheggi e trovavano nella composizione scenica una nuova possibilità di indagine sullo spazio. In particolare nel 1969 ricordiamo tre performance fondamentali nella produzione di Scheggi: OPLÀ. Azione-lettura-teatro, realizzata a Firenze, Dies Irae, messa in scena a Varese, Milano e Firenze e Marcia funebre o della geometria, progettata per la manifestazione Campo Urbano. Interventi estetici nella dimensione collettiva urbana a Como. Quest’ultima, progettata insieme a Franca Sacchi che ne curò l’aspetto musicale si componeva di sei protagonisti, quattro momenti, sei movimenti e due voci narranti. Quella che Scheggi e Sacchi mettono in scena è una cerimonia che nella coesistenza di una parte testuale testi selezionati letti dalle voci narranti associata ad una rituale gesti, azioni e movimenti dei performer, rispecchia ciò che il linguista Emile Benveniste definisce come “potenza dell’atto sacro”, che «risiede nella congiunzione del mito che racconta la storia e del rito che la riproduce e la mette in scena». Tuttavia Scheggi non si limita ad una semplice trasposizione delle fonti testuali Ulrico Molitoris, Christopher Marlowe e la Bibbia ovvero il libro dei Numeri in azione teatrale ma stratifica l’azione attraverso forme geometriche già care alla sua poetica e vesti colorate, conferendole un fare quasi “giocoso”. Inserire elementi geometrici all’interno della marcia funebre non voleva risultare nella morte della geometria stessa, ma nella celebrazione dell’asimmetria rispetto alla simmetria come dice Franca Sacchi. L’aspetto della morte e della “tanatologia” caratterizzano molte delle ultime produzioni di Scheggi.
L’urgenza da parte dell’artista di progettare un rituale potrebbe essere facilmente letta in base alla definizione che Ernesto De Martino ne dava all’interno del suo volume Sud e Magia del 1959. L’antropologo italiano riteneva che le forme rituali aiutassero l’uomo a superare una “crisi della presenza” che esso avverte di fronte alla natura, e che i comportamenti stereotipati del rito rendessero possibile un assorbimento del negativo in favore di un modello a-storico del divenire. Scheggi non vuole però congelare il corso degli eventi, ma guardare all’”incontro ineluttabile” con la morte dal punto di vista della vita, della felicità nell’esserci e nell’esistere, ricercando un rapporto con il pubblico che non si limiti alla semplice “osservazione-morte”, ma che indaghi forme di “partecipazione-vita” e aggregazione dinamiche attraverso la propria pratica interdisciplinare. Scrive infatti: «L’arte del falso oggettivo, l’arte della falsa verità rivelata, l’arte dove opera e fruitore giocano ruoli indipendenti è la istanza più appariscente della condizione che l’ha creata l’assenza di catarsi. E inevitabilmente si identifica con un’arte del non vissuto, dell’anemia e della morte». Così le forme archetipiche del cubo, del cono, del cilindro, della piramide, della sfera e del parallelepipedo si muovono in Marcia funebre secondo una coreografia che non rimane chiusa in un perimetro di azione ristretto, ma che invade la Piazza del Duomo di Como e si rivolge direttamente al pubblico, includendolo nella propria processione catartica. Il punto di vista di Scheggi riguardo il rapporto tra arte e città è temporale anziché spaziale. Ritiene infatti che le maggiori problematiche nella costruzione del binomio arte-città risiedano nella volontà dell’arte di riempire uno spazio e non un tempo, un tempo che sia per il cittadino visibile e vivibile, e propone di guardare la città come «tempo di spettacolo totale» e lo spazio come «sosta del tempo vissuto». Non a caso in Marcia funebre l’elemento temporale scandisce concettualmente le azioni. I tre momenti finali della performance riguardano il tempo come condizione, senza condizione e come catarsi e si conclude con la marcia dei protagonisti verso il “punto del tempo”. Scheggi vuole proporre un’immersione totale del pubblico all’interno dell’azione che non riguardi semplicemente l’aggregazione in uno stesso luogo prestabilito, ma che consideri l’esperienza dell’evento da parte della comunità come un momento di vitalità che rifiuta la mera contemplazione. Molti sono i casi studio contemporanei che si avvicinano all’opera di Scheggi e che vogliono abbandonare gli spazi da sempre deputati all’arte per esplorare nuovi territori. Basti pensare all’esperienza del movimento di Architettura Radicale e in particolare a quella del gruppo fiorentino Ufo, esemplificativa di un approccio diametralmente opposto a quello di Scheggi. Il gruppo fa delle tesi semiotiche di Umberto Eco apprese durante le sue lezioni di Decorazione presso la Facoltà di Architettura a Firenze la base per strutturare le proprie azioni sul suolo pubblico. Tra le prime azioni Ufo si ricordano in particolare gli Urboeffimeri, realizzati in occasione dell’occupazione di San Clemente nel gennaio del 1968. Queste grandi strutture tubolari gonfiabili andavano ad unirsi alla parata studentesca denunciando la guerra americana al Vietnam e diventando un’icona della rivolta. I grandi oggetti effimeri navigavano attraverso la folla, mescolandosi ai movimenti dei partecipanti e diventando parte integrante dello spazio. Nonostante la contemporaneità delle azioni Ufo e delle performance di Scheggi, questo si rapporta all’urbano e all’azione performativa in modo nettamente diverso, forse isolato, dalle varie esperienze che lo circondavano. Se nella forma della parata e della marcia possono ritrovarsi simili condizioni di esperienza comunitaria, l’aspetto spiccatamente politico degli Urboeffimeri si discosta dalle azioni di Scheggi, che se anche fa del “politico” lo interiorizza e rilegge, concentrando la propria opera sull’aspetto del mistico, del religioso e del sacro, anch’essi sintomi della ricerca di nuovi ordini e di realtà migliori. Ciò che le pratiche rituali in ambito performativo possono attuare oggi nel contesto urbano è proprio l’atto di profanazione come definito da Agamben, un atto politico che disattivi i dispositivi di potere e restituisca all’uso comune gli spazi che esso aveva confiscato, un atto che fornisca un nuovo punto di vista sulla città e sulla comunità che la vive, un rituale dagli uomini per gli uomini.
Il progetto sarà infine completato dalla edizione di un libro volto alla contestualizzazione storico-artistica e critica dell’intero progetto, completo di testi per ricostruirne gli aspetti formali, linguistici e filosofici, grazie anche all’ampio regesto di materiali storici e d’archivio. La Nascita dell’Eidos in relazione alla ricerca dei due artisti nel panorama culturale dell’epoca. Possiamo dire che Agnetti e Scheggi si sono sempre confrontati in uno stretto dialogo con le energie e le trasformazioni della città.