Pablo Picasso in Italia: Dalla Biennale Rifiutata alla Presenza a Roma
by Giovanni Cardone

 

Scrivere su Pablo Picasso non è semplice perché su di lui è già stato scritto tanto, forse è già stato scritto tutto. Fin da quando era in vita le pubblicazioni si sono succedute senza sosta: monografie, cataloghi di mostre, antologie e analisi delle sue opere, saggi critici, omaggi, poesie, feroci articoli di disprezzo. Si può certamente affermare che Picasso, con la sua arte e la sua personalità, sia stato l’artista più discusso del Novecento e forse, dell’intera storia dell’arte. In questo mio saggio ho cercato di studiare una piccola parte del suo percorso: le mostre a lui dedicate realizzate in Italia mentre era in vita. Un percorso tortuoso in cui ci si è dovuti scontrare con la ristretta mentalità accademica di alcuni intellettuali, le restrizioni fasciste, i problemi economici: tutti fattori che hanno fatto sì che l’opera del Maestro spagnolo restasse quasi sconosciuta nella nostra penisola per lungo tempo. Nel 1905 Picasso, nel pieno del suo ‘periodo rosa’, era un giovane artista, non ancora noto in Italia, ma che andava affermandosi in Spagna e in Francia. La Biennale di Venezia era arrivata alla sua sesta edizione ed era stato nominato Segretario generale Antonio Fradeletto, vero e proprio organizzatore della manifestazione a fianco della rappresentativa nomina a Presidente di Filippo Grimani, scelto in qualità di Sindaco di Venezia. Erano state nominate, poi, delle Commissioni ordinatrici che avevano il compito di invitare gli artisti internazionali e decidere, in un secondo momento, il criterio di collocamento delle opere. La presidenza, tuttavia, si riservava il diritto di rifiutare le opere “quando manchino di quell’importanza e dignità d’arte che sono espressamente richieste nella lettera d’invito”. Tra i commissari era stato nominato anche il pittore spagnolo Ignacio Zuloaga che, inoltre, esponeva nella sala spagnola due sue opere Guardiano di tori e Vecchie case a Haro. Egli, in un incontro con Picasso prima di partire per Venezia, viste le sue opere, aveva proposto al Maestro di mandare, con i suoi, dei quadri che egli riteneva meritevoli di essere esposti alla Biennale. E così avvenne, come ricorderà pochi anni dopo Soffici in un articolo apparso sulla rivista “La Voce” nel quale affermava: “Io, per conto mio, so di un affronto fatto all’arte, nella persona di un giovane spagnolo, domani glorioso, invitato ufficialmente a Venezia e espulso alcuni giorni dopo l’apertura della mostra, sol perché il suo dipinto non era conforme al gusto di chi ad un’opera geniale come la sua preferisce e preferirà, ahimè! sempre le evacuazioni policrome e pestilenziali d’uno Scattola, per esempio, o d’un Chitarin”. Proprio Ardengo Soffici fu uno dei sostenitori di una critica feroce nei confronti della Biennale: egli, infatti, si era assunto la missione di combattere sempre e dappertutto i nemici dell’arte moderna e questo caso, a suo parere, era un chiaro esempio di come Fradeletto e gli altri organizzatori dell’esposizione veneziana lo fossero. Che per Soffici questo comportamento da parte degli ordinatori della Biennale sia stata una colpa imperdonabile, lo testimonia abbastanza chiaramente il fatto che due anni dopo ritornerà sulla questione in un articolo in cui parlava del periodo rosa dell’artista: “Una di queste opere fu esposta alcuni anni fa a Venezia. Zuloaga, allora commissario per la Spagna, l’aveva richiesta a Picasso il quale la mandò; ma non restò esposta che alcuni giorni in capo ai quali Fradeletto, o chi per lui, la rispedì all’artista con la scusa che per la novità scandalizzava il pubblico”. Questione spinosa è, ora, capire quale quadro, o meglio, quali quadri erano stati mandati a Venezia. Nel catalogo della Biennale del 1905, infatti, Picasso non compare come artista espositore e quindi non vi sono riferimenti certi. Secondo Soffici uno dei quadri in questione è «uno di quelli popolati di “arlecchini e pagliacci macilenti” dipinti nel 1905» e di certo non possono essere quadri realizzati dopo tale data in quanto la menzione di Zuloaga come “rappresentante della Spagna” alla Biennale induce a collocare necessariamente l’episodio dell’invio del quadro all’epoca della VI esposizione d’arte. A supporto di questa tesi vi è anche la testimonianza di Apollinaire che parla di «un grand tableau de Picasso figura il y a quelques années à l’exposition de Venise» che egli identifica in Acrobate et jeune arlequin. Ora viene in nostro aiuto la lista delle vendite all’asta presso la Christie’s di Londra del 28 novembre 1988, che ci permette di identificare il quadro citato da Apollinaire: si tratta effettivamente di un Acrobate et jeune arlequin firmato e datato in alto a destra “Picasso 1905”. Il timbro della Biennale apposto sull’etichetta della parigina casa di trasporti per conto della Mostra, Mitchell e Kimbel, toglie ogni dubbio circa la presenza del quadro a Venezia. Rimane, tuttavia, il problema dei termini usati per descrivere l’opera: Apollinaire, infatti, la definisce un “Grand Tableau”, ma in realtà si tratta di una gouache su tavola di piccole dimensioni. Tale discrepanza porta a pensare che Picasso abbia mandato a Venezia almeno un altro quadro, grande e su tela, corrispondente, quindi, alla descrizione fatta dal poeta francese. La conferma che le opere dovevano essere più di una, poi, si può trovare in una cartolina indirizzata allo stesso Maestro spagnolo da Zuloaga, nella quale c’è scritto: «Amigo Picasso: avisé la casa Michell y Kimbel para che fueran a recojer sus cuadros». L’utilizzo del plurale, quindi, non ci lascia dubbi. Per quanto riguarda l’identificazione di questo famoso “Grand Tableau”, tuttavia, vi sono pareri contrastanti, magistralmente raccolti da Jean- Françoise Rodriguez nel suo libro “Picasso alla Biennale di Venezia”. L’ipotesi più convincente tra quelle citate dall’autore sembra quella avanzata dal gallerista Daniel-Henry Kahnweiler, mercante e amico di Picasso, il quale ricorda che nel 1905, a Venezia, sia stata mandata l’opera La Famille de saltimbanques, chiamata anche Les Bateleurs, ora alla National Gallery of Art di Washington nella sua terza versione. L’unico dubbio che permane sull’autenticità di questa affermazione è l’assenza del timbro della Biennale, che compare invece sull’etichetta del trasporto dell’altro quadro. La spiegazione potrebbe essere da ricercarsi nel lavoro di restauro eseguito sull’opera in occasione del suo arrivo a Washington nel 1931, del quale però non vi è alcuna documentazione. Utile è anche la testimonianza dell’interesse dimostrato da Zuloaga nei confronti del pittore malagueño: un biglietto datato il 17 febbraio 1905 nel quale egli raccomanda caldamente l’attenzione nei confronti di «un jeune espagnol, que s’appelle Picasso, et qui habite: rue Ravignan. Paris (Montmartre)» che, a suo dire «Il est tout disposé a vous envoyer 2 tableaux  Ilss ont petits».  Dalla lettura di questo biglietto si può dedurre che Picasso abbia deciso in un secondo momento di sostituire ai “petits tableaux” un quadro medio e uno grande, probabilmente perché più degni di figurare ad un’esposizione internazionale. La cosa incredibile è che gli archivi della Biennale sono praticamente muti sull’argomento: non vi sono tracce di eventuali lettere scambiate tra Picasso e il Segretario Generale dell’esposizione e i documenti relativi alle “Rispedizioni” di quell’anno non fanno nessun accenno ad un eventuale ritorno dei quadri citati. A conferma dell’invito ufficiale, tuttavia, vi è il comunicato stampa della Biennale del 13 aprile 1905 che include il nome di Picasso tra i pittori partecipanti. Nelle diverse edizioni del catalogo dell’esposizione, però, egli non figura tra gli artisti esposti nella sala spagnola: è probabile, quindi, che la prima edizione, che non porta la data di fine stampa, sia stata edita prima che la partecipazione di Picasso fosse confermata e che i quadri fossero inviati a Venezia, mentre le successive siano posteriori al rinvio delle opere al pittore. Rimane il dubbio, quindi, se le opere siano state effettivamente esposte o se siano state rimandate al mittente prima dell’inizio della manifestazione. Lo stesso Picasso afferma che «Il mio quadro è stato esposto due o tre giorni, poi me l’hanno rimandato a Parigi». Ciò che potrebbe indurre all’errore è lo spostamento dell’inaugurazione ufficiale che doveva tenersi il 22 aprile, che però quell’anno coincideva con il Sabato Santo e quindi venne rimandata al 26 aprile. La cosa certa di tutta la vicenda rimane la reazione del pittore spagnolo che, in una lettera di risposta alle scuse avanzategli da Zuloaga, risponde: «Amigo Zuloaga, no hay que asustarse de estas cosas. Le escribo a Usted desde Schoorl-Hollande, encantado de este paisya ve Usted que lo de Venezia no puede hacerme efecto en este momento».  Si può notare in queste affermazioni un forzato distacco che male nasconde la gravità dell’umiliazione subita, umiliazione che avrà gravi ripercussioni negli anni a seguire. Cinque anni più tardi, infatti, sollecitato da Ardengo Soffici ad esporre qualche suo quadro alla “Prima Mostra Italiana dell’Impressionismo”, organizzata a Firenze dagli amici de “La Voce”, Picasso risponde con un rifiuto, come testimonia lo stesso Soffici in una lettera indirizzata a Prezzolini: «Qualche ora fa sono stato da Picasso, ma non ha potuto far nulla e bisogna rassegnarsi a fare a meno di lui. Gli dispiace e a me anche, ma forse è meglio aspettare a farlo vedere in Italia un’altra volta». Allo stesso modo, Picasso rifiuterà i successivi inviti ad esporre alla Biennale di Venezia. In questa occasione la stampa italiana non si pronuncia sul “caso Picasso”, non vi sono articoli di riviste o quotidiani che ne parlino. Solo a distanza di anni la vicenda viene menzionata, ma si perde in ricordi confusi ed inesatti, quasi fosse una leggenda, un aneddoto da raccontare. Romolo Bazzoni, ad esempio, a quell’epoca amministratore capo dell’Esposizione Internazionale d’Arte, nel suo libro riporta l’episodio, ma collocandolo erroneamente nel 1910, in occasione della IX Mostra. Egli scrive, infatti: «Fradeletto, magnifica dinamica energia ma natura conservatrice quant’altri mai, aveva le sue idee. Basti pensare che nel 1910 (nello stesso anno in cui era presente Renoir con una personale) fece togliere dal salone spagnolo, inserito nel Palazzo Centrale, un’opera di Picasso perché con la sua novità avrebbe potuto scandalizzare il pubblico».  Dopo aver appurato che l’episodio risale al 1905, viene da domandarsi per quale motivo un personaggio così legato alla Biennale, e, quindi, ben informato sui fatti, sia caduto in errore. Probabilmente si tratta di un’inesattezza voluta, nel tentativo di giustificare un poco un simile sbaglio. Nel 1910, infatti, Picasso aveva ormai rivoluzionato la sua arte, si stava avvicinando al cubismo, ad uno stile che, quindi, non poteva minimamente avvicinarsi al “buon gusto” che si ricercava in Italia e, più nello specifico, si richiedeva per le opere da esporre alla Biennale. Dallo spiacevole episodio della VI Biennale di Venezia si deve fare un salto di ben dieci anni per poter, finalmente, vedere esposta in Italia qualche opera di Picasso. Sono due le mostre in questione, e in particolare la LXXXIV Esposizione internazionale della società Amatori e Cultori delle Belle arti di Roma e la III mostra della Secessione Romana, entrambe tenutesi nel 1915. Ma andiamo con ordine. La Società degli Amatori e Cultori delle Belle Arti è un’associazione fondata nel 1829, più precisamente, per citare le parole dello Statuto, «Essa conta la sua esistenza dal dì 24 Novembre 1829, in cui S. EmnzaRma il Sig. Card. Camerlengo di S.R.C. si degnò di approvarla, e accoglierla sotto la valida sua protezione». L’obiettivo della società era quello di «promuovere l’utilità, e l’incremento delle arti figlie del disegno, e d’incoraggiare quei che le professano  per mezzo di una continuata esposizione annuale».19 I soci potevano essere «O Amatori, o Artisti» e, quindi, l’intento era quello di accogliere gli artisti più importanti che operavano in Italia, in particolar modo nella capitale, sostenuti da esponenti del potere, nobili, mecenati, intellettuali ed accademici, al fine di creare un vero e proprio circolo culturale. Come vetrina del proprio operato, questa società organizzava mostre, «pubbliche e solenni  di sei mesi» che si aprivano al primo Novembre e duravano tutto il susseguente Aprile, nelle quali venivano esposte, per una volta soltanto, opere che dovevano, però rispettare alcune condizioni; ovvero opere «che non rappresentassero soggetti contrari alla Religione, ed ai buoni costumi, comunque eseguite con maestria» Dal punto di vista artistico, quindi, questa era una società nata nel clima della Roma papale, di cultura conservatrice, attenta al rigore e alla “decenza” accademica, e che, quindi, mancò quella funzione di vetrina internazionale che di lì a pochi anni assunse invece la Biennale di Venezia. Nel 1915 l’Esposizione era arrivata alla sua LXXXIV° edizione ed ospitava, nella “Sala H”, un’opera di Picasso: una puntasecca, Salomè, appartenente alla Collezione del parigino Clovis Sagot, del 1905. Come dicevamo, però, la politica artistica di questi gruppi dirigenti mantiene una distanza prudente dalle innovazioni stilistiche e dalle prove artistiche più audaci, compiendo, quando necessario, una sistematica esclusione dalle esposizioni pubbliche di quanti tentano di sovvertire il predominio di una tradizione accademica. Ed è proprio in reazione a questa “chiusura” che, nel 1912, un gruppo di circa 30 artisti, tra cui Giacomo Balla, Giovanni Prini e Camillo Innocenti, fondano una nuova associazione che chiamano “Secessione”, un chiaro rimando alle recenti esperienze europee di ribellione al sistema dell’arte, avviate in ambiente austrotedesco sul finire dell’Ottocento. Il fine delle secessioni era chiaro e ben definito: «intendevano separarsi, e in modo battagliero, dalle accademie dei rispettivi paesi, e aspiravano nel contempo a un internazionalismo dell’arte», e ciò era segno che uno spirito di libertà si muoveva nei più giovani, che risentivano di una mancanza di spazio per la sperimentazione e sentivano la necessità di confrontarsi con le novità che arrivavano, in particolar modo, dalla Francia. Così facendo, poi, si cercava di ottenere, per Roma, un ruolo meno periferico a livello internazionale, sulla scia di quanto accadeva già a Venezia. Ed è proprio il merito di queste manifestazioni l’aver portato per la prima volta a Roma un buon numero di opere di artisti stranieri: l’esperienza della Secessione romana, infatti, «permise di fare della Capitale il centro di un dibattito critico e di una produzione artistica contemporanea fondati sulla ricezione di alcuni episodi della cultura europea più avanzata». Le mostre della Secessione furono quattro, dal 1913 al 1916. Nel 1915, quindi, alla Terza Esposizione Internazionale della Secessione, i cittadini romani poterono vedere un’altra opera di Picasso; più precisamente Calice e Bottiglia, appartenente alla Collezione Richter, esposta nella “Sala 7 Internazionale (Bianco e Nero).” In merito ha tutto questo dibattito su Picasso in Italia abbiamo il dovere storico e storiografico di una profonda riflessione sul nostro Paese legato da sempre al ‘buon gusto’ e ad un’estetica del tempo che ha fatto si che il cubismo non potessero emergere, abbiamo atteso il dopoguerra per poter iniziare ha studiare Picasso e il cubismo. 

 

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