Nascita del MAC –Movimento di Arte Concreta

by Giovanni Cardone 

 

Il 2 Marzo dell’anno scorso è morto Gillo Dorfels all’età di 107 anni, egli si era dedicato all’arte dopo essersi laureato in medicina con una specializzazione in psichiatria ed arrivando ad insegnare Estetica nelle Università di Milano, Cagliari e Trieste. Aveva pubblicato numerosi libri, tra i quali “Il divenire delle arti” (1959), “Ultime tendenze dell’arte d’oggi” (1961), “Il kitch” (1968), “Le oscillazioni dal gusto” (1970), “Il divenire della critica” (1976), “Elogio della disarmonia” (1976), “Il feticcio quotidiano” (1988), “Conformisti” (1997).

Come pittore, attività che ha proseguito insieme a quelle di docente e scrittore, è stato, nel 1948, tra i fondatori del MAC (Movimento Arte Concreta), che fu un caposaldo dell’astrattismo. Nel gennaio 2017 aveva inaugurato alla Triennale di Milano la mostra ‘Vitriol, Disegni di Gillo Dorfles, 2016’, una summa del suo pensiero artistico. Volendo segnare un centro gravitazionale dal quale muovere il filo del discorso per dispiegare i territori frequentati dalla riflessione di Gillo Dorfles i cui interessi teorici e critici si sono spinti in campi assai differenti che vanno dalla pratica della pittura alla scultura, dalla musica alla poesia, dall’estetica alla teoria dell’arte e alla critica, emerge spontaneamente chiaro un periodo cruciale della sua produzione, che scorge l’artista (in quanto pittore attivo) impegnato a svolgere il ruolo di critico militante e teorico dell’arte, legato a quel filone del Movimento per l’Arte Concreta che lo vide tra i più rilevanti artefici, protagonisti e interpreti del suo tempo, e, in genere, di tutte le conseguenze e le ripercussioni dell’arte nel contemporaneo.  Dorfles è, del resto, nota Paolo Fossati in uno dei primi lavori sistematici dedicati al Mac, una personalità decisamente complessa, poiché egli svolge il proprio impegno indagatore come critico e pittore assieme. L’origine di Gillo Dorfles è legata, tuttavia, ad un fermento culturale mitteleuropeo che trova in Trieste, sua città natale, il fulcro del proprio pensiero e dei propri interessi culturali.  Dice Dorfles: “Sono nato vicino al mare, a Trieste, il grande porto dell’Impero austro-ungarico: un crocevia di razze, destini e identità meticce, un luogo privilegiato dell’incontro tra popoli. Anche se formalmente eravamo sudditi austriaci, parlavamo italiano: in realtà, se ci si inoltrava per i vicoli lastricati della Città Vecchia, si poteva sentire la cantilena triestina mescolarsi alla lingua slava e a quella tedesca. A completare questo affascinante mélange c’erano una ricca e popolosa colonia ebraica, il cuore artistico e intellettuale della città, e una variopinta colonia greca, da cui provenivano le famiglie più facoltose”.

Già in questo breve spaccato storico in cui Dorfles ricorda un amico d’infanzia, Leo Castelli, è possibile percepire sensibilmente quel clima culturale in cui si sono strutturati gli interessi dell’autore. Interessi per la letteratura e per l’arte prima ancora che per le altre attività elaborate soltanto in seguito, tra Milano e Roma i luoghi di studio e specializzazione universitaria prima, e poi in molte altre città nazionali ed internazionali.

  È proprio a Trieste, località in cui dice Dorfles : “si conoscevano già le opere di scrittori come Kafka, Wedekind, Strindberg, Spengler, e tanti altri soprattutto attraverso Bobi Bazlen il primo “uomo di lettere” che riuscì a trasformare la curiosità per i nuovi talenti in un mestiere, quello di scout letterario”, che Dorfles frequenta gli ambienti più interessanti e vivaci del proprio tempo.

In quegli anni iniziarono anche i pellegrinaggi dall’Italia di illustri scrittori come Montale, che, poi, sarà anche un suo amico, e in seguito di Ferrero e Debenedetti, tra gli altri, Saba e Svevo. Erano queste le persone che incontravamo molto spesso. Qualche volta, ad esempio, dopo aver passato la giornata al Bagno Savoia, Leonor Fini, Bobi Bazlen, Leo Castelli ed io, si andava a giocare a bocce con Italo Svevo. Formavamo un gruppo di giovani “intellettuali chic” oggi si direbbe “di Sinistra”, ma all’epoca non sapevamo neanche cosa fosse, la Sinistra, eravamo dei “pensatori mondani”.  Sono questi, così, i territori in cui Dorfles si nutre d’una cultura letteraria che porterà l’autore, a scrivere, ad esempio, il suo isolato romanzo, Lo specchio etrusco mai pubblicato e andato irrimediabilmente perduto ha ricordato lo stesso autore in un’intervista rilasciata a Lea Vergine, e le sue varie poesie; un gruppo di poesie appartenenti all’unico periodo in cui, avvisa lo stesso autore, “ebbi l’impudenza di scrivere dei versi”; vale a dire attorno agli anni quaranta. Anni difficili, che Dorfles ricorda in alcuni suoi libri di natura ironico estetica (Conformisti del 1997) e biografica (Lacerti della memoria del 2007). Dice Dorfles: “Ricordo ancora abbastanza bene il periodo fascista; la mia decisa repulsione già all’età di 15-16 anni quando bisognava iscriversi al Guf verso il partito”. E, in altro capoverso: “Ricordo quando, negli anni trenta, per discutere la tesi di laurea all’Università di Roma, fui costretto a indossare la camicia nera. Siccome non ne possedevo una (già allora ero nemico del “regime” me la feci prestare da un amico, iscritto al Guf; e, con un certo ribrezzo al contatto con quel tessuto scuro, mi presentai all’esame”. Ma questo è anche il periodo in cui Dorfles, tra Trieste, Milano e Roma, si avvia alla pittura e alla scultura. Le sue prime opere, difatti, risalgono agli anni Trenta del XX secolo. Paesaggio con volto umano (1934), Paesaggio iperboreo (1935), Montagna incantata (1936), Larve azzurre (1937), Metamorfosi (1938), Guanto e spirale (1940): sono soltanto una campionatura in cui è possibile rintracciare un primo nucleo- fondamentale per comprendere il successivo percorso stilistico (artistico, teorico, estetico, critico), legato a rappresentazioni sempre più acefale e complesse, micrologiche, monocellulari, discorso che vale, naturalmente, anche per la scultura, che diventeranno, in seguito, sottolinea Emilio Tadini, pittore e critico d’arte, ghirigori tracciati da qualche sismografo di sogni ma anche una piccola lezione di semiologia figurata. E proprio in queste prime opere si percepiscono, a fondo, non solo quegli studi in Medicina e in Psichiatria, reificati in modelli e forme artistiche, ma anche tutte quelle curiosità che Dorfles ha mostrato, in un preciso momento della sua attività artistica (e critica), nei confronti di un filone, quello antroposofico, assimilato attraverso un viaggio a Dornach, in Svizzera, un centro steineriano vicino a Basilea. Ma è pur sempre l’ambiente triestino, l’intelligenzija triestina degli anni Trenta, gli incontri e i circoli culturali del proprio paese natio, ad offrire a Dorfles le basi della propria prima formazione. In realtà, indica lo stesso autore in uno dei tanti dialoghi e incontri tenuti con Flavia Puppo, già prima di frequentare le lezioni a Dornach “realizzavo opere che non avevano nulla a che vedere con l’antroposofia, ma che subivano l’influenza di un pittore triestino, Arturo Nathan, un metafisico che creava paesaggi lunari alla De Chirico. Combinando le due influenze, per un certo periodo la mia pittura si basò su personaggi misteriosi. La cosa più importante era l’uso dei colori. Utilizzavo tempere o acquerelli, mai pitture a olio, dato che desideravo mantenere quella qualità di trasparenza. All’epoca la pittura era un’attività che mi piaceva, anche se non pensavo certo di esporre i miei lavori”. “Ho dipinto da sempre, si può dire pure quando frequentai il ginnasio” è ancora una volta Dorfles a ricordarlo in un’intervista tenuta con Lea Vergine disse: “facevo degli sgorbi sui margini dei libri di testo. Dico sgorbi ma in realtà li tenevo da conto anche allora, alcuni compagni li ammiravano molto; difatti erano originali. A tempera, a olio. Li tenevo per me, aspettando il futuro. A un certo punto della mia vita, molto più avanti, insieme ad alcuni amici fondai il MAC (movimento arte concreta). dal ’48 al ’58 esposi in molte mostre in Italia e all’estero. Quella fu l’epoca della mia maggiore attività pittorica”.  Ora, riconsiderare le linee tracciate dal Movimento per l’Arte Concreta, la sua nascita, i suoi sviluppi successivi, le sue diramazioni nazionali e internazionali e, infine (dopo un decennio di attività), il suo collasso, vuol dire, monitorare non solo una stagione, particolarmente significativa, dell’arte italiana e della sua avanguardia, ma anche ritessere, all’interno di questa, il percorso artistico di una figura poliedrica della cultura italiana, Dorfles appunto, personalità tra le più interessanti e attente dei cambiamenti e dei processi socio-culturali, nonché antropologici, del secondo Novecento. Seguire una fase, quella del secondo dopoguerra in Italia, attraverso l’esperienza del Mac milanese e attraverso le azioni, i gusti e le preferenze critiche, di uno dei suoi più straordinari interpreti, vuol dire riconsiderare un’intensa stagione dell’arte italiana, nonché le peculiarità di ogni singolo autore che svolse un ruolo decisivo in questo aggrovigliato panorama artistico. Occorre affidarsi, spesso, alla cronologia, alla cronografia, ai movimenti, ai vari gruppi che hanno animato questo clima culturale, alle tendenze stilistiche, alle poetiche che ogni artista o ogni gruppo e «forse siamo in un periodo storico in cui i gruppi funzionano meglio delle singole personalità» mette in campo per dispiegare il proprio discorso pratico in assunto teorico suggerirebbe Luciano Anceschi che pure gioca un ruolo fondamentale in questo brano di storia.

 

 

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