L’arte oltre il limite
by Giovanni Cardone
Capita a molti, visitando una galleria o una mostra d’arte contemporanea, di rimanere perplessi davanti alle opere esposte e di interrogarsi sul senso di ciò che vedono e se, per caso, l’artista (o il critico d’arte) non li stia prendendo in giro. Talvolta è proprio quasi tutta l’arte del Novecento che viene guardata con sospetto, perché si allontana dai canoni estetici e figurativi a cui la grande tradizione italiana ci ha abituato. Eppure dovremmo ormai considerare tradizione anche il Novecento. In alcuni casi, si considerano gli impressionisti come l’ultima frontiera comprensibile dell’arte, in altri si apprezzano le avanguardie storiche (Cubismo, Futurismo, surrealismo e così via), dopo di che si pensa a un caos espressivo e a un’inaccettabile soggettività degli artisti.
Dico subito che, soltanto l’accostarsi al problema presenta qualche difficoltà; richiede una certa passione e una discreta fatica. Però, alla fine del percorso suggerito, se molti saranno gli interrogativi ,potremo avere la presunzione di non aggirarci più in una terra aliena, di poter riconoscere visi e paesaggi, usanze e storie che, certo, non ci avranno reso proprio esperti dei luoghi, ma che ci permetteranno almeno di non perderci per viottoli secondari, inseguendo domande sbagliate o mal poste. La prima considerazione può dare un certo conforto a chi si sente sperduto di fronte all’enormità e alla diversità dell’attuale offerta d’arte. Siamo spettatori di una produzione imponente e variegata, che attraverso i canali più diversi (gran parte dei quali nel passato non esisteva, come non esisteva l’attuale abbondanza di immagini) si presenta contemporaneamente alla nostra attenzione. Insomma, ci arriva di tutto: dalla crosta al capolavoro, dall’artista furbetto al serio sperimentatore, dall’innovatore al ripetitore. In questo mare di stimoli artistici, i mediatori-promotori (galleristi, critici e così via) dovrebbero funzionare da filtro della qualità. Abbiamo anche l’impressione, in quanto fruitori d’arte, che dal passato ci arrivino invece (e vengano esposti) solo capolavori, più o meno grandi. Per cui si ha il sospetto, sbagliato, che i livelli artistici fossero un tempo molto più alti di quelli attuali. In realtà, per ogni opera salvata quante sono quelle andate perdute (brutte e belle) o che giacciono, invisibili, nei depositi? In sostanza: croste e capolavori, artisti furbetti e artisti seri, innovatori e ripetitori sono sempre esistiti, ma il tempo ha operato una selezione, mentre nel nostro caso, il tempo è ora. Per questo il rumore di fondo è molto forte, rendendo difficile isolare i suoni buoni dalle stecche. Certo, come vedremo tra poco, tutto ciò non esclude il fatto che ci troviamo anche davanti a fenomeni del tutto nuovi. Intanto, il sistema dell’arte contemporanea, con l’affermarsi della civiltà industriale e postindustriale, è profondamente diverso da quello del passato. Gli stessi ruoli degli attori (acquirenti, mediatori critici, spettatori e, ovviamente, artisti) hanno una nuova configurazione. La domanda d’arte è enormemente cresciuta rispetto al passato, per non parlare dei sistemi di riproduzione che permettono l’acquisizione privata di ottime copie di un’opera, il cui originale spesso non esiste proprio o è solo un suggerimento decorativo. C’è una correlazione precisa tra le innovazioni sociali e tecniche e lo sviluppo dell’arte, nel senso che di frequente la seconda anticipa nella sensibilità le prime.
Ma sono proprio le innovazioni esterne a rendere possibile e a determinare il mutamento degli stili. Come l’adozione del colore ad olio nel Rinascimento ha permesso la simulazione delle tre dimensioni su una superficie a due dimensioni (il quadro), così l’introduzione dei colori “artificiali”, a partire dall’Ottocento, per esempio, ha permesso lo sviluppo di tecniche di pittura assolutamente nuove e la combinazione di tonalità e timbri coloristici in precedenza sconosciuti. Ma non si tratta solo di colori: in un certo qual modo, il colore guida anche la forma e il cosa rappresentare. È la chimica industriale una delle madri della pittura contemporanea. Oggi più di ieri c’è bisogno di un nuovo linguaggio quale: la semantica e la semiotica perché la pittura ritorni ad essere qualcosa di veramente importante . Ora dobbiamo porci un interrogativo: l’artista che entra nella rete conserva pienamente la propria libertà creativa o rimane asservito alle leggi della rete stessa? Rispondere a questa domanda significa fare luce sulla nuova realtà che caratterizza l’arte dal momento del suo ingresso nei circuiti della comunicazione massmediatica. Più che un mezzo che si offre all’artista, la rete sembra configurarsi propriamente come un mondo, quindi qualcosa di radicalmente differente da un mezzo; infatti a differenza del “mezzo”, che ciascuno può impiegare per un fine liberamente scelto, con il “mondo” non si dà altra libertà se non quella di prendervi parte o starsene in disparte . La rete si configura come una nuova topologia, un nuovo “mondo” la cui organizzazione è garantita dalle leggi imposte dalla rete medesima. Nel pensiero contemporaneo la nozione di rete sembra assumere il ruolo svolto dal concetto di organizzazione nella scienza ottocentesca : ciò che importa oggi non è tanto il richiamo a norme razionali atte a legittimare i meccanismi disciplinari, quanto piuttosto l’instaurazione e la persistenza di schemi comunicazionali indipendenti da ciò che attraverso di loro viene veicolato. Con l’avvento del postmoderno il conflitto fra ordine e libertà, che costituisce il dramma della modernità, sembra giungere a soluzione. L’interesse filosofico del concetto di rete, dipende dalla possibilità di intendere tale nozione come un ordine senza fondamento e una libertà senza soggetto. In tale direzione Heidegger considera da un lato il Gefüge (struttura) come una dimensione più ampia del sistema, e dall’altro l’Offene (l’aperto) come una dimensione più ampia della liberazione. Pensare l’ordine come sistema disciplinare e la libertà come emancipazione del soggetto significa restare nell’ambito della modernità, l’età della scienza e dell’umanesimo. Se l’arte intesa come carcere, come chiusura è solidale con la modernità, l’arte contemporanea (nel senso sopra specificato che la identifica con il postmoderno) non è un carcere ma una rete, dove l’immagine di chiusura lascia il posto a quella di un’apertura nel sistema. Ciò naturalmente comporta un nuovo e differente approccio alla stessa nozione di arte, privata ora di quei caratteri di opposizione pregiudiziale alla società caratteristici della concezione romantica. Nel momento in cui si realizza la totale integrazione dell’opera d’arte nel sistema-rete tende a dissolversi anche il legame strutturale fra mercato e oppositività artistica: l’arte che entra in rete eredita dal circuito economico i meccanismi del mercato, e in tal modo da “Art Art” si trasforma in “Business Art”.
Lo statuto tradizionale della categoria artistica è l’insieme delle determinazioni fondamentali del modo di essere dell’operazione artistica e del prodotto da tale operazione. Tanto l’operazione quanto il prodotto si pongono come una totalità compiuta: l’operazione, nella misura in cui diviene cosciente di se stessa, non tollera la presenza di nessun’altra operazione; il prodotto, nella misura in cui si pone come opera d’arte, annulla tutti i prodotti esterni. Con la nuova concezione dell’arte, invece, quella totalità compiuta che accomunava operazione e prodotto appare dapprima scissa (nell’Avanguardia, ancora sotto l’egida del moderno), per poi ricomporsi in una nuova totalità , che altro non è se non la totalità della rete. Se da un lato l’operazione artistica diventa ora mera operazione commerciale, dall’altro l’opera è oggetto di un ingente potenziamento del suo valore. Ci troviamo di fronte all’«estasi del valore, che fa esplodere la nozione di mercato dell’arte e annienta al tempo stesso l’opera d’arte in quanto tale» . Nella concezione moderna l’opposto complementare dell’arte è l’economia. Come l’arte monopolizza il significato, così l’economia monopolizza la realtà; mentre la prima è il significato separato dalla realtà, la seconda è la realtà separata dal significato. «Alla idealità dell’arte è complementare la materialità dell’economia. L’idealità dell’arte riguarda tanto l’operazione artistica quanto il prodotto. L’operazione è ideale non perché priva di manifestazioni esteriori, ma perché rimanda al suo prodotto senza risolversi in esso; così l’opera d’arte è ideale perché a sua volta rimanda all’operazione che l’ha prodotta senza risolversi in essa» . Così come l’operazione artistica termina in un prodotto libero, autonomo, analogamente l’opera d’arte si pone quale prodotto di un’operazione spontanea. C’è, tuttavia, un residuo che accomuna tanto l’operazione che l’opera: si tratta della sfera del desiderio, dell’immaginazione, del simbolico, di ciò che non si dà immediatamente né con l’opera né con il processo che la realizza. L’operazione tenta di soddisfare il desiderio da cui nasce attraverso l’opera d’arte, al tempo stesso l’opera d’arte cerca di risolvere il mondo desiderato nel prodotto dell’operazione artistica. Ma né l’una né l’altra riescono in tali tentativi: la loro totalità, infatti, è soltanto ideale, in quanto non comprende la sfera economica, la realtà materiale . La nuova concezione postmoderna della categoria artistica, basata sulla nozione di rete, sembra fornire una soluzione al problema. L’arte che si è fatta business risulta essere pienamente integrata nella sfera economica; grazie al dinamismo multipolare delle reti comunicazionali sia l’opera che l’operazione artistica si inseriscono energicamente nei circuiti economico-commerciali. Ora che tanto l’opera quanto il processo che la conduce a realizzazione si sono trasformati rispettivamente in un prodotto commerciale e in un’operazione commerciale, quella totalità soltanto ideale (in quanto separata dalla realtà materiale economica) cede il posto a una nuova totalità, non ideale ma reale. Paradossalmente, tuttavia, in questa nuova totalità reale l’immaginario si sostituisce alla realtà: l’immaginario è il regno del sogno, della specularità, del narcisismo; a esso manca sia il carattere mediato e allusivo del simbolico, sia l’aspra e dura traumaticità del reale . Una domandsa, ora, si impone: con la fine della modernità si assiste, dunque, a un inesorabile processo di morte dell’arte? Da un lato, è il denaro ad aver “salvato” l’arte. «L’arte, fortunatamente, è un mercato e noi divinizziamo la prima perché abbiamo divinizzato in primo luogo e soprattutto il secondo. O, piuttosto, il miracolo della sopravvivenza viene dall’incontro tra le caratteristiche fisiche dell’oggetto d’arte e le proprietà miracolose del denaro. Ossia, l’alleanza di due feticismi in uno solo» . D’altra parte i nuovi criteri di giudizio e valutazione della categoria artistica che l’epoca postmoderna inevitabilmente impone, suggeriscono un’ipotesi più ottimista sulla sopravvivenza dell’arte. Infatti, se esiste un nocciolo duro, un nucleo inviolato nell’arte, questo non deve essere cercato nel soggetto, nell’artista, nel suo desiderio di espressione, quanto piuttosto nell’opera, nella sua radicale estraneità, nella sua irriducibilità a un’unica identità, nella sua essenziale enigmaticità. L’arte, in sostanza, sembra non potersi mai dissolvere interamente nel mercato, nella comunicazione, nella rete; pur aderendo alle leggi e ai parametri economici dettati dai circuiti in cui è inserita, essa custodisce un nucleo insondabile e incomunicabile, un fondo buio che è la fonte di un’infinità di interpretazioni.
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