Aldo Rossi: Uno dei Protagonisti della Cultura Visiva del Novecento
by Giovanni Cardone

 

In una mia analisi e riflessione sulla mostra di Aldo Rossi che parte da una mia ricerca storiografica che divenne convegno universitario interdisciplinare per far si che la Storia dell’Architettura e la Storia dell’Arte si potessero confrontare sul pensiero di questo grande figura che ha dato tanto all’arte italiana.  Aldo Rossi, uno dei più grandi e famosi architetti, teorici dell’architettura e accademici italiani. Nato a Milano nel 1931, Rossi ha senza dubbio segnato la storia e la letteratura architettonica moderna. Non a caso, nel 1990 per la prima volta, il Premio Pritzker si assegnò proprio a lui, un architetto italiano. Ogni sua opera è tutt’oggi caratterizzata da un design inconfondibile, desideroso di avvicinare i canoni dell’architettura moderna alla popolazione comune. ‘La caffettiera’ e’ La Cupola’ di Alessi è un perfetto esempio e riassunto del pensiero di questo architetto. L’obiettivo era proprio onorare un’azione così significativa per la cultura italiana come il prendere un caffè. Dalle realizzazioni più piccole a quelle più imponenti, anche una delle sue opere più importanti, L’architettura della città del 1966, risulta tutt’oggi molto attuale. Analizzato ancora dagli studenti di architettura come pietra miliare del panorama moderno, Rossi ha contribuito alla consapevolezza sull’importanza dello studio della città, non solo negli aspetti economici e politici ma anche in quelli architettonici. Vediamo ora una panoramica sulla vita e sulle peculiarità di questo artista, tra gli architetti famosi più conosciuti d’Italia. Per comprendere davvero il pensiero di questo architetto poliedrico è necessario analizzare le sue parole e i suoi scritti. Per me è importante precisare che quella di Rossi è un’architettura autobiografica, dunque volta a raccontare il suo autore attraverso forme e strutture.  Anche per questo motivo, ad oggi risulta impossibile imitare le opere di questo architetto come quelle di molti altri. Le sue creazioni e i suoi progetti diventano racconti di ricordi, di incontri e di emozioni: secondo Rossi, è sbagliato considerare monumenti e costruzioni come essere inanimati. Ogni cosa è dotata di un’anima che vuole trasmettere un messaggio a chi osserva. All’interno della sua idea, svolge un ruolo di fondamentale importanza anche l’elemento soggettivo infatti. Lo stile classico e razionalista viene ripreso all’interno delle sue opere, senza però mai imitarlo. Il contesto cittadino in cui l’opera viene realizzata deve avere un ruolo predominante. Le forme semplici e lineari che possiamo ritrovare come denominatore comune nei suoi progetti, portano a realizzare progetti dallo stile semplice ma originale. Non è possibile razionalizzare ogni aspetto della realtà, importante è anche distaccarsi dai canoni del tempo. Il mondo esterno viene visto attraverso i suoi occhi. Dall’inizio degli anni settanta Aldo Rossi ha dimostrato di essere in grado di influenzare largamente l’evoluzione dell’architettura internazionale in quel suo momento di passaggio che l’ha portata verso un modo di intendere la progettazione che appare chiaramente voler considerare non più «dominante» la cultura di quello che è stato definito “movimento moderno”. Non che Aldo Rossi «negasse» l’importanza del contributo dei maestri delle generazioni del funzionalismo, ma non vi è dubbio che soprattutto per una sua evidente tendenza a valutare la storia intesa essenzialmente come memoria o, forse meglio, come «memoria urbana» quale un possibile punto di riferimento per lo svolgimento dell’attività progettuale l’architetto milanese offrì a molti l’occasione per un ripensamento del ruolo della disciplina. Ha detto, nel corso di un’intervista, a questo proposito, Aldo Rossi: «I miei migliori allievi, nel senso dello sviluppo di alcuni principi da me enunciati, sono in gran parte dei giovani architetti di tutto il mondo, in Europa, in America, in Giappone; la generazione di mezzo ha portato avanti e consolidato un aspetto della mia ricerca, i più giovani sviluppano senza nessun complesso d’imitazione alcuni miei progetti. Intorno alla metà degli anni sessanta, nello stendere la relazione che accompagna il progetto con il quale prende parte al concorso a inviti avente per oggetto la ricostruzione del teatro anini all’interno della piazza della Pilotta di Parma, l’architetto milanese esprime già e con molta chiarezza proprio uno di quei concetti che maggiormente influiranno sulla mentalità di molti giovani progettisti, quello del rapporto tra l’architettura intesa essenzialmente come monumento e la città. Egli scrive: «Con il Teatro di Parma mi sono posto decisamente il problema del monumento. Ho sempre pensato all’architettura come monumento; alla sua Indifferenza per le funzioni secondarie. Solo quando essa si realizza come monumento costituisce un luogo; percorrete un teatro antico, state in ore diverse nel teatro romano di Orange o girate per un teatro del settecento vuoto, voi non pensate che secondariamente allo spettacolo. Il teatro può fornire l’occasione per uno spettacolo, ma possiede una sua realtà architettonica. Il teatro greco era un fatto urbano; esso conteneva una città. Per questo nel progettare un teatro non dobbiamo tenere in eccessiva considerazione la sua funzione; gli artigiani possono sempre adattare un edificio; falegnami, fabbri, decoratori, elettricisti rendono sempre fruibile un edificio. Ma per l’architettura è diverso; essa non può riferirsi a questo o a quello spettacolo; essa riguarda l‘essenza del Teatro. Così la forma non muta, e anche l’idea del Teatro». Tra le opere più famose di Aldo Rossi possiamo limitarci a ricordare la fontana monumentale studiata, nel 1965, per la piazza del municipio di Segrate nella quale si mostra ormai chiarissima  la tendenza dell’architetto milanese a comporre per mezzo dell’accostamento di volumi ‘puri’, l’unità residenziale costruita nel quartiere Gallaratese di Milano tra il 1969 e il 1973, l’ampliamento del cimitero di San Cataldo a Modena, .realizzato tra il 1971 e il 1978, il Teatro de/Mondo per Venezia, del 1979. A proposito del progetto che aveva da poco realizzato per questo teatro galleggiante, Aldo Rossi scrisse:» La sua struttura non poteva che essere in legno, e non certo solo per il tempo della costruzione, ché il legno è materiale solidissimo e forte nel tempo. Ma perché è legato all’architettura di questo teatro non in un senso funzionalistico, ma perché esprime quest’architettura: le barche di legno, il legno nero delle gondole, le costruzioni marinare. Questo teatro veneziano è legato all’acqua e al cielo, e per questo ripete nella sua composizione i colori e i materiali del mare. Aldo Rossi amplia la visione di Boullée, superando anche il pensiero funzionalista. Per Rossi la forma permane, le funzioni invece si modificano nel tempo e l’architettura si trasforma di continuo. L’oggetto è una relazione di cose e l’emergere di queste relazioni pone sempre nuovi significati. I suoi progetti sono pensati per permettere più funzioni, per consentire tutto ciò che nella vita è imprevedibile. “Le sue forme sono poche proprio perché non sono inventate ma ricordate. Derivano dalla sua esperienza delle cose nella vita di tutti i giorni”, osservazione delle cose che diventa memoria delle cose. Le forme dell’architettura di Rossi derivano dalla cultura in cui è cresciuto: dalla tradizione vernacolare, sia contadina che industriale dell’Italia settentrionale, alle influenze andaluse. Sono forme che non dipendono dalla funzione ma che sono evocate e selezionate nella memoria. I suoi progetti nascono dalla composizione di forme prime dell’architettura: cubo, cilindro, cono, parallelepipedo, forme archetipe che, di volta in volta, assumono carattere contemporaneo. La progettazione ai nostri giorni non può prescindere da processi di tipo polisensoriale. “La formalizzazione dello spazio collettivo non può non passare per una progettazione che tenga conto di processi polisensoriali nella fruizione del luogo, oltre al piacere visivo-estetico, le relazioni umane negli spazi privati e collettivi saranno improntate sull’influenza tra cose e persone. Plasmare un mondo attraverso la globalità della percezione oltre alla sola astrazione visiva sarà un passo verso uno spazio umano sostenibile, che si trasforma e si modella in sintonia con il nostro sentire”. L’aspetto percettivo di tipo puramente visivo non esaurisce più il campo delle relazioni tra ambiente antropizzato e fruitore: il rapporto di mutuo scambio tra oggetto e soggetto non può più essere considerato di predominio della visione a discapito degli altri sensi e delle interazioni tra essi. Solo un’architettura che preveda un’esperienza multisensoriale oggi può considerarsi significativa: uno spazio che si può misurare con gli occhi, il movimento, il tatto, gli odori, che realizzi quindi una compresenza di sensazioni in grado di mettere in rapporto il nostro corpo con l’ambiente costruito. Si afferma oggi la necessità di una percezione sinestetica. Il primato della percezione visiva sulle altre sensazioni, e il riconoscimento quindi dell’architettura come arte visiva, si può far risalire già all’antichità, come sottolinea Juhani Pallasmaa, ma è sicuramente a partire dagli anni Sessanta che il concetto di percezione, in special modo urbana, viene portato all’attenzione del pubblico, grazie agli scritti di Kevin Lynch. Lynch parte dal presupposto che i cittadini posseggano un’immagine mentale del luogo in cui vivono, che permette loro di leggere e quindi riconoscere il paesaggio urbano. La città dunque inizia ad essere considerata non come semplice oggetto bensì come risultato della percezione dei suoi abitanti; obiettivo dell’autore è proprio l’analisi dei caratteri che concorrono alla definizione della sua immagine. Scrive Lynch: “L’immagine ambientale è il risultato di un processo reciproco tra l’osservatore e il suo ambiente. L’ambiente suggerisce distinzioni e relazioni, l’osservatore – con grande adattabilità e per specifici propositi – seleziona, organizza, e attribuisce significati a ciò che vede. L’immagine così sviluppata ancora, limita e accentua ciò che è visto, mentre essa stessa viene messa alla prova rispetto alla percezione, filtrata in un processo di costante interazione”. L’immagine che ciascuno possiede del paesaggio urbano nasce quindi da un rapporto reciproco tra spazio fisico e osservatore; ogni individuo crea in sé un’immagine propria capace di evocare un ricordo chiaro e nitido, ne consegue quindi che esisteranno tante immagini individuali quanti sono i singoli fruitori. Inizia quindi a farsi strada il pensiero secondo cui la forma dell’oggetto, e quindi della città, abbia un’influenza, positiva o negativa, sulle persone che ne fruiscono. Di conseguenza, gli abitanti tenderanno a conformare lo spazio in cui vivono oltre che alle loro esigenze anche alle proprie sensazioni. Quando un gruppo si insedia in un luogo lo trasforma a sua immagine. La forza delle tradizioni è così potente che anche quando intervengono modificazioni spaziali il gruppo cerca di ritrovare il suo equilibrio nella nuova condizione. “I gruppi disegnano sul terreno la propria forma e ritrovano i propri ricordi collettivi nel quadro spaziale così definito”. Le teorie sulla percezione degli spazi architettonici, e in particolare sulla percezione visiva legata alla memoria collettiva, si fanno strada a partire dagli anni Sessanta in poi. Ma da quando in realtà possiamo iniziare a parlare di un rapporto tra architettura e percezione, tra spazio e sensi, e soprattutto quando viene sancita in maniera netta la supremazia della visione sulle altre qualità sensoriali? Il rapporto tra memoria e modernità è stato, negli anni Trenta, oggetto di studio da parte di Walter Benjamin, in una serie di scritti che avevano come tema il concetto di esperienza e la sua sparizione. Punto di partenza delle sue riflessioni è il fatto che l’esperienza debba essere considerata nella sua accezione di esperienza vissuta o accumulata (Erfahrung), in cui i contenuti hanno bisogno di tempo per sedimentare nella memoria. Secondo Benjamin, la nostra epoca è caratterizzata da un’atrofia dell’esperienza, in quanto la modernità è investita da continui e repentini cambiamenti, il moderno si mette in discussione di continuo, ciò che era nuovo invecchia nel giro di pochissimo tempo; questa rapidità nel cambiamento impedisce la sedimentazione del sapere. Gli eventi vissuti non vengono assimilati ma assumono la caratteristica di chocs, collisioni, ferite, senza possibilità di rielaborazione. “Lo choc non è incorporabile nell’esperienza: richiedendo una risposta automatica, esso non ha il tempo di sedimentare”.  L’uomo moderno si muove come un automa, il suo comportamento è dettato dalla necessità di reagire velocemente, di muoversi in fretta, di controllare e parare gli chocs a cui è fatto oggetto. Questi vengono assorbiti dalla coscienza senza raggiungere le zone più profonde del sistema psichico. È quella che Jedlowsky definisce “ipertrofia della coscienza” cui corrisponde una “atrofia dell’esperienza”. L’uomo moderno ha a disposizione una quantità illimitata di dati e informazioni. Nel mondo moderno dunque l’esperienza cede il passo all’informazione, si gioca tutta nel presente. I due concetti sono esattamente agli antipodi, l’informazione è semplice somma di dati, l’esperienza prevede invece sedimentazione ed elaborazione dei vissuti in vista del ristabilirsi di una continuità che è intesa come capacità di dare significato al presente. Il tema della memoria, ben diverso da quello della mnemotecnica, “affonda le sue radici nel primordiale timore di essere dimenticati”, timore che, da sempre, accompagna la nostra specie. Per questo gli uomini hanno sempre cercato di fissare immagini in grado di richiamare alla memoria eventi e persone, con la realizzazione di monumenti, cimiteri, sacrari. Questa paura di cadere nell’oblio è quindi un fattore che non ha solo a che vedere con il passato ma anche con il futuro. È un voler fare in modo che ciò che noi siamo stati non vada perso. Sulla scorta del pensiero di Halbwatchs e delle sue teorizzazioni sulla memoria collettiva, è nato un filone di pensiero che ha incentrato le sue indagini sul rapporto tra la memoria e il tempo, passato, presente e futuro. Il passato può essere letto secondo due punti di vista differenti, come qualcosa che non c’è più o come qualcosa che può tornare. È questa seconda interpretazione che si vuole qui sottolineare. Passato come essente-stato, participio passato del verbo essere, vuol dire intendere il passato in accezione positiva, come qualcosa che può essere evocato e tornare anche ai nostri giorni. Paul Ricoeur, prendendo come punto di partenza il pensiero di Halbwachs, ne amplia i contenuti sottolineando l’aspetto dialettico del tempo nel suo rapporto con il passato. Il passato viene relazionato sia al presente che al futuro, e alla memoria viene affidato il compito di inserirsi proprio in questa dialettica temporale, “movimento di scambio con l’attesa del futuro e la presenza del presente, chiedersi come ci serviamo della nostra memoria rispetto all’oggi e al domani”. Possiamo dire che Aldo Rossi indaga il tema della forma che un edificio deve possedere. L’edificio nel tempo può subire diverse mutazioni di destinazione d’uso in base alle funzioni che va ad ospitare, ma nonostante questi cambiamenti la sua forma rimane immutata e anzi è quella che rimane impressa nella nostra mente. Il suo rimanere impressa dipende dal fatto che nulla può esser reinventato, ma ogni forma deriva da un antecedente, ciò da un elemento primitivo, germe preesistente. Il tipo non si identifica con la forma, ma è un elemento che interagisce in maniera dialettica con il progetto. Aldo Rossi critica quindi il funzionalismo, ma nega anche le teorie dell’organicismo che assimilano la città ad un organismo vivente e del razionalismo che spesso tende ad essere confuso con schemi geometrici semplici. L’elemento di comprensione dei fatti urbani è per Rossi, da ricercare nel carattere collettivo dei fatti urbani stessi, in quelle permanenze che agiscono da elemento propulsore e catalizzatore e non patologico, e che nella città sono i monumenti, i tracciati, le strade, vale a dire la forma della città, che “è sempre la forma di un tempo della città” e non è mai dovuta al caso. La forma è nei valori collettivi che si tramandano nel tempo e dunque nella memoria, che “diventa il filo conduttore dell’intera e complessa struttura”. Aldo Rossi amplia la tesi di Halbwachs: la città stessa è la memoria collettiva dei popoli; la città è il locus della memoria collettiva. Lo spazio si trasforma per opera della collettività e la memoria diventa il filo conduttore dell’intera e complessa struttura. Così il carattere di intere nazioni, civiltà, epoche, parla attraverso l’insieme di architetture che esse possiedono. La memoria è la coscienza della città. “È probabile che questo valore della storia, come memoria collettiva, intesa quindi come rapporto della collettività con il luogo e con l’idea di esso, ci dia o ci aiuti a capire il significato della struttura urbana, della sua individualità, della architettura della città che è la forma di questa individualità. La quale individualità risulta così legata al fatto originario, al principio nel senso del Cattaneo; che è un evento ed è una forma”.

 

Print Friendly, PDF & Email