Qualcosa come un’imminenza. Note attorno all’opera di Jatun Risba
by Francesco Aprile

L’artista slovena Jatun Risba si occupa di performance e arti visive, proponendo un discorso che, poggiando sull’intermedialità, tende a indagare i rapporti fra l’attore sociale e il mondo, restituendo il corpo ad una naturalità dispersa, eppure dialogante. Formatasi nell’ambito della Nuova Accademia di Belle Arti (NABA) di Milano con Pier Luigi Capucci, Francesco Monico e Antonio Caronia, oltre che in filosofia del linguaggio, a Roma, con Paolo Virno, ha conseguito un PG Cert in Art & Science presso la Central Saint Martins University of the Arts London nel 2020. Con il suo lavoro può contare una robusta serie di esposizioni in contesti di rilievo; dal 2019 collabora alla realizzazione di opere video e fotografiche con l’artista Franco G. Livera.

Con una serie di opere dal forte impatto performativo che intrecciano, fra l’altro, diverse tipologie di media, mette in azione una radicale relazione con lo spazio volta a un ripensamento sapienziale della nostra relazione con esso e del nostro modo di occuparlo. Per brevità, di questi lavori se ne citano solo alcuni in questa sede: Possibility of a relation, Poetics of colour, A tree doesn’t fall far from the Mountain, Be-coming space ecc.

Una componente importante, nel lavoro di Risba, è di certo occupata da quella dimensione che con Lacan potremmo accogliere sotto il nome di “reale”. L’esperienza del fatto estetico si pone come azione, prima che opera, come spazio, come fatto, appunto, ovvero un susseguirsi di stati di cose che nel loro svolgersi esprimono movimento e creano lo spazio che diventa non uno squarcio a sé stante, ma insiste ed esiste nell’ambito dell’azione stessa, ridefinendosi, accogliendo l’azione che a sua volta è un processo di rimodellazione dell’umano nell’ottica di una sorta di scambio simbiotico, relazionale, biunivoco, compartecipato. Ritroviamo, in Altre inquisizioni di Borges, una descrizione del fatto estetico che torna utile alla costruzione di un discorso attorno all’opera di Risba: “La musica, gli stati di felicità, la mitologia, i volti scavati dal tempo, certi crepuscoli e certi luoghi vogliono comunicarci qualcosa, o ce l’hanno già detta, e noi non avremmo dovuto lasciarla perdere, oppure sono sul punto di dirla; questa imminenza di una rivelazione, che non si produce, è forse il fatto estetico” e questo spunto di Borges è poi ripreso da Blanchot che a sua volta articola rispondendo: “In questo modo ci ha forse suggerito, con la sua elegante discrezione, il suo proprio segreto: che scrittore è colui che vive con fedeltà e attenzione, con meraviglia, con ansioso dolore, nell’imminenza di un pensiero che mai altro non è che il pensiero dell’eterna imminenza”.  I crepuscoli, i volti scavati dal tempo, i luoghi, gli elementi citati da Borges, allora, altro non sono che parte integrante di quella quotidianità riscritta e saggiata dal lavoro di Risba, dove il contesto è messo alla prova di una relazione straniante, perturbante: il luogo, ciò che ci è familiare, quotidiano, attorno, è la cosa allo stesso tempo vicina e lontana che può incutere timore in quella sua distanza irriducibile che non riusciamo a colmare. L’innesto delle nuove tecnologie dilata l’effetto perturbante e la liberazione del corpo riavvicina l’attore sociale che ridiventa corpo naturale al fine, ci dice l’artista, “di ricucire il divario modernista tra Natura e Cultura”. La partizione ambiente umano/non-umano, confutata dagli studi di Harold Searles, viene abbattuta dall’artista che ha ingaggiato un lungo periodo di studio e auto-guarigione (2012-2019) ponendo al centro della sua pratica la relazione umana e non-umana, attraverso danze sfrenate, auto-ipnosi, e nello sconfinamento-dialogo fra corpo e ambiente supera le camere egoiche nell’ottica di un allargamento dell’orizzonte interpretativo e visionario del reale. A questo punto, la relazione radicale con lo spazio insiste come momento cruciale dell’opera, dove non è più la maschera balinese del teatro artaudiano a farsi viatico che scatena il corpo nella performance, ma il corpo stesso che, abbandonata la maschera della quotidianità, entra nell’era di una performance rigenerativa facendosi maschera, nel senso di vettore privilegiato, di un dialogo dove l’azione è motivo centrale di una relazione biologica, non più estetizzante, con la performance, diventando, il corpo, porta d’accesso di una relazione organico-esistenziale sulla falsa riga di quella mutualità, come fondamento dell’esistente, elaborata da Margulis. Be-Coming Space è un progetto avviato nel 2022 che non presenta data di fine; l’indeterminato a cui è destinato evidenzia la non conclusione in quanto diventa atto programmatico, performativo e quotidiano di una esistenza, prim’ancora che di una ricerca artistica, volta a risacralizzare lo spazio in una nuova rete di rapporti uomo-mondo.

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