Intervista a Giancarlo Pavanello
by Francesco Aprile
1. Scritture asemantiche e anti-fumetti. Quando inizia questo suo percorso, all’interno dei linguaggi verbo-visivi, di corrosione di un senso precostituito? Come si evolve nel tempo?
1.La predisposizione per il disegno si era trasformata intorno al 1970-1971 nell’intuizione di un’arte nuova [in un mio testo “recitavo”: “devo inventarmi un’arte… ma l’arte dei cavernicoli è già stata fatta”, più o meno così, a memoria.
In questa sperimentazione confluiva un’altra vocazione, alla quale non ho mai rinunciato e alla quale non rinuncio: la poesia, la letteratura, la scrittura in tutte le sue forme. Così hanno visto la luce molti testi manoscritti, brevissimi, di tipo epigrammatico e con caratteristiche surreali, con grafia larga e spessa, vere e proprie tavole di pittura a inchiostro, in b/n [volendo, e a mia insaputa, inquadrabili nella tradizione ideogrammatica giapponese tradotta in lingua italiana]. Sono sempre stato portato per una sorta di eclettismo delimitato, non avendo mai scelto drasticamente fra “lettere” e “accademia di belle arti”, semmai cercando proprio quelle che nel gergo degli ambienti musicali e artistici vengono chiamate “contaminazioni”. Quella serie di testi, riscritti più volte per cercare la massima sintesi e la grafia migliore, erano piaciuti ad Adriano Spatola e a Giulia Niccolai, con i quali ero venuto in contatto intorno al 1974 sia pure ignorando completamente le ricerche verbo-visive già iniziate negli anni sessanta ma con altre peculiarità. Ne è stato pubblicato il libro “epigrammi scritti con una penna di pavone”, Geiger, 1975, in 250 copie. Parallelamente a questo volume, però, avevo già iniziato a produrre una serie di libri in esemplare unico e/o libri-oggetto, rilegati, in cui facevo confluire l’altra produzione, quella più legata al disegno, molti disegni anche con la penna a sfera, uno strumento a cui allora nessuno attribuiva qualche dignità come possibilità grafica.
Era un periodo di contestazioni a tutto campo e, nella volontà abbastanza agitata di fare esperienze, ero venuto in contatto con gli ambienti radicali dell’antimilitarismo e di Stampa Alternativa, più legati a varie forme di creatività, insomma era quello che allora si definiva “controcultura” e “underground”. Avevo prodotto ciclostilati e una sorta di rivista in cento copie, “bricolage”, pagine fascicolate e graffettate, dove confluiva un po’ di tutto, dalla poesia alla militanza politica e al disegno. Avevo collaborato con qualche disegnino grottesco a “puzz” di Max Capa, una fanzine di “sballofumetti”, molto poco, devo dire, e un po’ me ne pento, avrei potuto fare di più. Ma ogni esperienza ha un inizio e una fine, inutili i rimpianti. Il fatto è che avevo bruciato questo periodo in un paio d’anni, ero ormai invitato alle mostre di tendenza, ossia a pieno titolo e definitivamente nel settore delle “ricerche verbo-visive” e questa scelta mi sembrava più seria [ma sbagliavo]. Posso ricordare come esempio una mostra collettiva alla quale ero stato invitato, “la forma della scrittura”, Galleria d’Arte Moderna [l’attuale MAMBO], Bologna, 1977: avevo partecipato con un libro in esemplare unico le cui pagine erano tutte di sole vocali o di sole consonanti, quindi illeggibili.
I “linguaggi verbo-visivi” e formule simili. C’era già di tutto. Allora abitavo a Venezia e un amico mi aveva presentato Rossana Apicella, che viveva a Padova: aveva un suo linguaggio critico molto rigoroso e per la mia produzione di testi calligrafici parlava di “scritture asemantiche”, in generale, ma a dire il vero la cosa era molto più sfumata e di spessore nello stesso tempo. Le parole e gli enunciati nascevano nella mia mente come vere e proprie “poesie”, che al momento della trascrizione visiva potevano apparire confuse e cancellate, cancellate del tutto o semi-cancellate, per tanti motivi [ripensamenti, ineffabilità, insoddisfazione nei riguardi del linguaggio scritto troppo razionale], per cui giustamente la formula corretta era “scritture a-semantiche o pseudo-asemantiche]. Ovviamente sono formule critiche che potrebbero essere sostituite da altre sigle simili, di recente mi sono stupito quando ho saputo che molti giovani e meno giovani operano nel campo dell’“asemic writing”, molto attivi in questo settore [di sicuro, volendo, si troverebbero differenze cavillose su cui non sta a me entrare nel merito].
Mi limito alla mia esperienza di vecchia data. Di sicuro la pulsione scrittoria andava, come dici giustamente, nel senso della “corrosione” di un senso precostituito in cui la poesia possa apparire senza problematicità e senza dubbi di sorta, a tutto tondo e in pieno possesso delle sue facoltà sintattiche. Era ed è un percorso che, per forza di cose, sta tra la letteratura e la grafica o se si preferisce tra il lirismo verbale e la rinuncia al lirismo verbale, senza dubbio verso una produzione di “pittura segnica” [la “pittura segnica” ha illustrissimi precedenti in piena prima metà del Novecento, potrei citare Henri Masson e Henri Michaux e poi Man Ray e Jean Arp].
A Rossana Apicella devo la mia seconda mostra personale, “alla scoperta della idoglossia semantica o pseudo asemantica”, Il Canale, Venezia, 1977: vi presentavo in alcune sale della galleria allora molto di punta esclusivamente libri in esemplare unico, la formula “libri d’artista” non era ancora in uso e tanto meno inflazionata come al giorno d’oggi.
Aggiungo, per correttezza o per una sorta di pulizia mentale, che parallelamente ho continuato anche a scrivere e a pubblicare raccolte di poesie più tradizionali, quelle che sia pure contestandone la formula, venivano definite “poesie lineari”: p. e. “la finestra a ghigliottina”, Guanda, 1978. Non ho mai nascosto che, spesso, le mie poesie venivano e vengono pensate a intermittenza, magari mentre attraverso un crocevia o quando sto seduto in un bar o per strada di giorno o di sera tra la folla. Il processo è elementare: trascrizione su fogli di carta fra i più disparati, poi a macchina per scrivere e ovviamente nell’epoca dell’informatica con il PC. L’accanimento sulla forma migliore da dare ai testi verbali mi ha portato nel 1999 alla “poesia laconica”, da una a tre parole, soprattutto tre parole, due sostantivi e un aggettivo. Ma un’altra pulsione mi ha anche sempre spinto a ridisegnare i testi come grafica o pittura, o all’inizio, non vedo la necessità di scegliere tra la poesia verbale e l’immagine astratta, visiva e/o cromatica, della poesia. [Anche la mia “poesia laconica” va nella direzione del dubbio sulla legittimità di scrivere poesie nel XXI sec.]
Neppure il capitolo dell’ “anti-fumetto” è facile da sintetizzare. Con il 2000 mi sono messo a leggere una quarantina di classici del fumetto [proprio nella consapevolezza di averli ignorati dopo la mia infanzia], e poi tanti altri, privilegiando i cosiddetti “fumetti d’autore” a scapito di quelli commerciali da edicola. Abbastanza da rendermi conto che non ne ero appassionato a sufficienza. Non mi sembravano una vera e propria grande “arte”, benché si volesse indurre a crederlo, semmai era un artigianato a volte di qualità e a volte non tanto. Mi ero accorto che Andrea Pazienza non sarebbe stato possibile se, prima di lui, non ci fossero stati Robert Crumb [l’underground americano] e proprio Max Capa [l’underground italiano] con cui avevo collaborato, per quanto poco o pochissimo, e così via. Ogni tanto buttavo giù di getto qualche vignetta anomala, anche negli anni ottanta e novanta, come se io avessi solo accantonato questo genere di creatività che restava latente. Intanto i tempi cambiavano e avvertivo il pericolo di continuare a produrre opere di maniera, ossia il ripetersi stancamente senza sapersi rinnovare: va da sé che questa necessità di rinnovamento rientra nella continua insoddisfazione di un artista e nelle sue curiosità, nella sua predisposizione per le sperimentazioni, nei tentativi di trovare nuove strade per esprimersi al meglio e il più compiutamente possibile [questo non c’entra nulla con l’adeguarsi alle mode indotte dai critici o da chicchessia].
Eppure, all’improvviso, intorno al 2005, mi sono reso conto, come in una vera e propria illuminazione, che una mia nuova sperimentazione [dopo la fotografia e tante altre tecniche] poteva essere proprio il fumetto: avevo inventato il personaggio Franz Mensch [sempre “nudo”, anche se la sua nudità non ha nulla di erotico, come una sorta di manichino], Mensch in tedesco significa “uomo” nel senso di “essere umano, donne e uomini”. In una serie di fumetti [la serie di “svestire gli ignudi”] potevo convogliare i miei generi letterari e artistici su cui mi ero prodigato per decenni e decenni: il disegno, l’astratto e il figurativo, la scrittura verbo-visiva, la poesia, la pulsione affabulatoria, la satira e quant’altro mi venisse in mente. Via via pubblicati on line e via via in versione cartacea: il primo della serie, “zibaldone quotidiano” e “le avventure di Franz Mensch” [2006-2010], ixidem, 2012.
Benché un editore mi avesse pubblicato, bontà sua, un libro di narrativa, “romanzo”, Campanotto, 1990, non è nel mio carattere supplicare e ho optato senza indugio per le “autoproduzioni”, anche questo è forse un segno dei tempi, per di più riallacciandomi al giovanile periodo “underground”. Come il mio romanzo era un anti-romanzo, però, li ho definiti fumetti solo in un primo tempo, tanto per capirci, poi ho preferito la formula “anti-fumetto”, infatti avevo studiato questa “letteratura disegnata”, come la definiva Hugo Pratt, abbastanza da preferire questa puntualizzazione per correttezza intellettuale. Il disegno è primitivo, a-tecnico, come se io non sapessi disegnare, a volte ci sono tavole digitali o semi-digitali, la narrazione è quasi ridotta a zero, ogni tanto una sceneggiatura minimalista [non rigida come nella tradizione occidentale, più vicina alle sceneggiature “aperte” dei manga, in cui i disegnatori hanno la facoltà di aggiungere quanto “gli” detta la fantasia].
In questa fase concludo segnalando un opuscolo a cui tengo moltissimo, in cui tracciavo il trait d’union fra i miei disegni dell’adolescenza e il passaggio al fumetto con la delineazione del personaggio Franz Mensch, attraverso i linguaggi verbo-visivi e la poesia: “fumetti et similia”, ixidem, 2010.
2. La domanda rispecchia, probabilmente, la visione critica di chi la pone, potrei quindi ribadirla togliendo il punto interrogativo, quando è notorio che un artista, un poeta, spesso non sa o preferisce evitare di esprimere con esattezza i propri intenti nell’esecuzione delle proprie opere, per quanto concettuali possano essere. Ho parlato dei miei procedimenti esecutivi proprio per non “spiegare” più di tanto, dopo di che spetta a chi guarda e a chi legge il compito di discettare interpretando i manufatti o i testi letterari, ovviamente se hanno saputo catturare l’attenzione e l’interesse o la curiosità [in generale]. Rossana Apicella stessa, come critico, aveva codificato in modo esagerato il suo linguaggio, volendo essere “scientifica” e avendone abbastanza delle locuzioni del tipo “ho l’impressione che…” – “mi sembra…” – “mi sembra di capire…” – eccetera. Ma un giorno le ho obiettato: “però così metti sullo stesso piano sia le opere di grande valore sia, poniamo, gli scarabocchi su un muro”. E aveva giudicato come fondata e pertinente la mia perplessità. La crisi dei metodi critici della contemporaneità sta proprio nell’incapacità di identificare la “qualità” di un’opera e dei singoli autori, tanto da prevedere che possa riacquistare l’importanza perduta il “giudizio” di merito derivante da una sensibilità personale [che è una forma di intelligenza], quello che tradizionalmente e in gergo è stato chiamato “fiuto”. Personalmente non mi trovo d’accordo con l’andazzo di mettere tutto e tutti sullo stesso piano, per pigrizia e soprattutto nell’incapacità di scegliere. Arriverei al paradosso di consigliare ai curatori di mostre di procedere in base alle simpatie personali, p.e., sarebbe già molto, meglio di niente, escludendo a seconda delle proprie antipatie: niente di più irrazionale e di a-critico, certo, eppure sarebbe già qualcosa con cui confrontarsi o a cui opporsi o no. Insomma, con i Salons ufficiali ed esclusivi sono stati possibili gli anti-Salons degli artisti eliminati e anti-accademici, innovativi, che hanno segnato la storia dell’arte. In tutta evidenza, come sempre da che mondo è mondo, conta il lavoro dei compilatori, l’interesse suscitato nelle generazioni successive e nella posterità.
Un anti-linguaggio. No. Direi che è un linguaggio fra i tanti linguaggi di cui ognuno si serve per comunicare o non comunicare, artisti e non-artisti. Intendo esprimermi con un linguaggio il più possibile multiforme: è il mix o l’interrelazione di almeno due o tre linguaggi, un linguaggio verbale e un linguaggio visivo in primis, proprio quello che Rossana Apicella aveva definito “singlossia”. A questa parola da lei coniata, poi, aveva affiancato altri neologismi e il tutto costituisce la sua inconfondibile terminologia critica.
Tuttavia preferisco spiegarmi in modo più “umano” [lo dico per ridere, l’ironia non guasta mai]. Certo, la stesura di un testo poetico con l’intento di farlo diventare una tavola grafica o un dipinto [quasi sempre nel mio linguaggio cromatico la “paletta” è limitata a pochissimi colori] esula dalla “tipografia” tradizionale, eppure se mi metto a leggere un mio brevissimo componimento più o meno frammentato, nascondendo la superficie del supporto, lo si può percepire come una vera e propria poesia. Poi, se lo si guarda, allora lo si percepisce come una tavola grafica o pittorica. Allora… come la mettiamo? Sono un “poeta” o un “pittore”? Sono obiezioni poste ai miei “amici” detrattori: quando c’è un reading di poesie non vengo invitato in quanto sono un “pittore” e quando ci sono mostre di pittura non vengo invitato in quanto sono un “poeta”, in tutta evidenza le opere d’arte chiarissime sono di difficile comprendonio per le menti chiuse in schemi.
Poi, comunque, ci sono interrelazioni fra le parti di questo linguaggio verbo-visivo a più sfaccettature: elementi verbali, grafici, pittorici, quindi di diversa estrazione [perfino associati a veri e propri disegni, all’arte astratta e all’arte figurativa] ma confluiti in un unicum in cui qualcosa perde il suo significato per acquistarne un altro più sfumato o più ineffabile, in cui non è possibile manifestare alcunché poiché si tratta di dimensioni che esulano dalla realtà del supporto e dell’esperienza per così dire fisica ed esistenziale dell’autore per inoltrarsi in sfere che oserei definire più mentali e/o spirituali, e qua mi fermo per non diventare ridicolo [sono aspetti su cui è bene stendere il velo del pudore].
Cito solo lo zen ma en passant e con leggerezza: ho sempre avuto simpatia per le sue varie scuole ma non ho mai cercato di diventarne uno studioso più o meno capace o incapace, nella consapevolezza di essere radicato in una civiltà occidentale e nella volontà di evitare le scimmiottature. Agli altri le sentenze. Da tutto questo deriva un mix di “imagismo” verbale e di pittura segnica, come se questa grafica o questa pittura “illeggibile” come testo verbale fosse costruita mio malgrado, sicuramente senza trionfalismo, quasi con sofferenza. Da come è enunciata la domanda mi accorgo che, forse, c’è in chi la pone un quadro di riferimento in cui non mi ci ritrovo compiutamente, mi sia consentita questa perplessità: l’“immaginario segnico” mi ricorda tutta la produzione abbastanza recente di pittori dagli anni settanta e soprattutto dagli anni ottanta in poi che hanno prodotto, appunto, molta pittura segnica senza avere le basi e la pulsione della poesia verbale o lineare o la sua vocazione, limitandosi alle maniere, per non dire copie o quasi-copie, già ampiamente collaudate nella prima metà del Novecento, inseriti nell’astrattismo pittorico e nell’informale più che nelle ricerche verbo-visive. Poi, spesso, l’ironia può anche trasparire nei singoli testi verbo-visivi o nei suoi frammenti, p.e. quando ho satireggiato le quartine e le terzine dei sonetti con segni alfabetici ma con parole del tutto illeggibili, rimaste nella mente e semicancellate: anche l’ironia va nel senso della consapevolezza della problematicità dello scrivere poesie al giorno d’oggi. La formula dell’intervistatore “la costruzione di un immaginario segnico che con ironia ‘fonda’ le pieghe del reale”: deliziosa – cosa aggiungere di più?
3. Fra parola e oggetto. Ci parli della sua produzione di libri d’artista.
3. A parte i disegni del periodo adolescenziale e giovanile, un periodo in cui ho prodotto pochissimo in ambito pittorico, quando sono entrato nell’operatività concentrata sui testi calligrafici, sia pure riconducibili a una sorta di “pittura a inchiostro”, va da sé che non ho avuto dubbi nell’optare per il libro-opera, per il libro manoscritto in esemplare unico, quando la formula “libri d’artista” non era ancora in uso, allora si pensava tradizionalmente soprattutto al “libro figurato d’autore” o al massimo si cominciavano a individuare gli “off media”. Il supporto privilegiato per la parola come segno, per la parola-immagine e/o per la parola associata all’immagine, restava il libro. Una scelta rigorosa anche per il mio interesse per l’epoca pre-Gutenberg, per il Medio Evo, per le Arts and Crafts e per William Morris. Ma giocava molto la visione di un’architettura d’interni che prevedeva le pareti con materiali autosufficienti, ossia già esteticamente compiuti come arte astratta e materica [quindi su cui sarebbe stato vandalico piantare chiodi e gancetti e attaccaglie varie]. Già alcuni pittori andavano verso il rigetto del “quadro tradizionale” per inoltrarsi in altre tecnologie, in tutto quello che lo ripudiavano: iniziavano le sperimentazioni del video, dell’installazione, della performance e così via.
La mia prima mostra personale, “dall’art brut all’estetica socialista”, Nuovo Spazio, Venezia, 1975, metteva in scena, appunto, solo libri manoscritti perfettamente rilegati, album con scritture e disegni, oggetti [fra cui la “tesi di laurea”, ossia una scatola di cioccolatini], tutti disposti su tavoli e vari supporti, nulla sulle pareti. Per sottolineare la mia scelta medievalistica avevo perfino registrato su “cassetta” una compilation domestica di musiche e canti medievali tratti da vari dischi in mio possesso, fatta ascoltare con un registratore durante tutta l’inaugurazione.
Gli anni successivi qualcuno ha coniato la formula “libro-oggetto”, che non ho mai apprezzato, tantomeno in tempi recenti, quando la proliferazione di “libri d’artista” è aumentata a dismisura, con tanto di archivi specifici ma in Italia con pochi collezionisti, spesso prodotti da autori che ritengono facile facile questo genere di opera d’arte [un po’ come a molti sembrava e sembra facile facile partecipare alle mostre di mail art]. Per “libro-oggetto” molti intendono piccole sculture in forma vagamente di libro e soprattutto di libro distrutto, realizzato con i materiali più disparati: il messaggio che ne emana è la consapevolezza della “fine del libro” nella nostra epoca dominata dall’informatica e dal computer. La mia obiezione è stata immediata: i curatori di mostre di libri d’artista danno molto risalto soprattutto ai libri-oggetto realizzati come piccole sculture, alludendo, appunto, alla crisi del libro tradizionale, ma poi fanno stampare bellissimi cataloghi del tutto tradizionali, ossia libri tradizionali. Allora… come la mettiamo?
La correttezza intellettuale mi ha sempre portato a scelte chiare, sia pure negli errori e nei ripensamenti delle sperimentazioni e della ricerca, quindi ho prodotto, sì, anch’io qualcosa di riconducibile al libro-oggetto, ma sono esattamente oggetti realizzati in vari materiali, dal plexiglas al cartone, eccetera, non sto a dilungarmi, fino al vero e proprio design [tre “pezzi” per lo stand di Sawaya&Moroni per “abitare il tempo” nel 1993, realizzati dalla Ditta Ghianda e recentemente venduti in un’asta parigina.
E’ una produzione in sordina, in ogni mia mostra personale un oggetto pensato e realizzato all’ultimo momento proprio come leggera “dissacrazione” della mia produzione più seria: da qualche tempo sto cercando di dare più visibilità a questa produzione, non eccessiva ma costante nel tempo, e non ho alcuna difficoltà a farla risalire, come intenti, più che al ready-made duchampiano all’ “objet d’affection” di Man Ray, ossia all’oggetto trovato e rettificato. Nelle mie intenzionalità c’è una pulsione giocosa di origine vagamente dadaista o più in là come curiosità da moderna Wunderkammer, che non va repressa come non devono essere represse le altre espressioni di libertà della vita quotidiana. Poi, forse, c’è anche la contestazione della seriosità e del narcisismo di quasi tutti gli artisti presenti sulla scena contemporanea. In questo caso, sì, è possibile individuare il dispiegarsi dell’ironia a cui si accennava più sopra. [Utsanga ha pubblicato tempo fa le foto di alcuni di questi miei oggetti].
Comunque sia, resto più segnalato per le “scritture”, per le ricerche verbo-visive: forse perfino “segnato” in senso negativo come “imprigionato” in una tendenza poetico-artistica alla quale non posso più sfuggire a scapito di altri percorsi paralleli o convergenti per i quali si stenta a prendermi sul serio. Un libro di riferimento è “scrittura attiva”, percorsi artistici di scrittura, a cura di Ugo Carrega, Zanichelli, 1980 [in una collana diretta da Bruno Munari]. Ovviamente ci tengo e sono soddisfatto di essere stato inserito in una rassegna di mostre molto prestigiose [1979-1980], lo indico sempre a chi, soprattutto fra i giovani, intende documentarsi sul passato.
Tuttavia, con la mostra personale “esibizione bibliografica”, Avida Dollars, Milano, 1989, ho preferito dare una svolta alla mia produzione. Per la prima volta ho esposto anche quadri di piccolo formato e alcuni disegni dell’adolescenza e giovanili, anche se la maggioranza delle opere era costituita, come il solito a partire dalla mia mostra del 1975, da libri in esemplare unico e da libri stampati. Infatti, dagli inizi avevo maturato l’idea che quelli che si sarebbero definiti libri d’artista erano anche i volumi e i materiali cartacei in qualche tiratura, ossia le edizioni originali [questa scelta, scettica nei confronti della proliferazione di libri d’artista sempre più marcata, sempre più inflazionata], è anche quella rinvenibile nel catalogo di Liliana De Matteis e Giorgio Maffei, libri d’artista in Italia 1960-1998, Regione Piemonte, 1998 [ricordo benissimo la breve conversazione con Liliana De Matteis sul “libro-oggetto” come “sculturina” da valutare, appunto, come scultura].
A iniziare da quella mia mostra personale le tavole avevano spesso le caratteristiche di veri e propri dipinti, anche se la pittura a olio tradizionale mi era ancora estranea, privilegiando le tecniche miste, l’acquarello, l’ecoline, l’inchiostro, la tempera, l’acrilico, su carta e più raramente su tela. Nemmeno negli anni successivi ho trascurato la produzione di libri d’artista, tutt’altro, era predominante. Ma la mia svolta era stata subito colta dagli “amici” detrattori che prima non producevano libri d’artista per diventare, poi, curatori di mostre di libri d’artista: quindi, vedendo che non ero più così fanaticamente ed esclusivamente sostenitore di questo genere artistico hanno subito approfittato per eliminarmi dalle rassegne di libri d’artista, mentre in tutti quegli anni ero sempre stato l’unico autore che si presentava nelle mostre collettive con libri d’artista e non con quadri o quant’altro.
Direi che possiamo concludere. Non senza segnalare che, da quando ha cominciato a trionfare il PC, l’e-book, e ora il tablet, lo smartphone, e chissà cos’altro ancora nel prossimo futuro, con siti e blog personali, mi è perfino capitato di scrivere e di pubblicare un pensierino semplice semplice: il proprio PC è una nuova forma di libro e di libro d’artista, poiché contiene la varia creatività di un autore, fra scritture e immagini, perfino la “singlossia cinetica” di cui aveva parlato Rossana Apicella, che però poteva solo pensare al video, al cinema, al teatro multimediale.
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