Da 2 a 32 di Cristiano Caggiula: la poesia è una guerra alla poesia e al suo senso
by Francesco Aprile
Uno spettro si aggira per l’Europa – lo spettro della poesia. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, Cucchi e Arminio, De Angelis e Gualtieri, radicali francesi e poliziotti tedeschi, la bianca e lo specchio, l’editoria italiana su tutte, prodigiosi sciamani, sacerdoti delle chiese più disparate, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro, sostenendone, al contrario, un ideale fisso, cristallizzato nel tempo, in qualche modo assoluto e autosufficiente dotato di un senso immutabile, ideale come una certa ferocia, edulcorata dalle modalità seducenti del capitale, che la produce. […] Da questo fatto si ricavano due conclusioni. La poesia è ormai riconosciuta come potenza emozionale – contentino di produzione capitalistica per le anime buone e belle – da tutte le linee di forza del capitale che sono, sempre, emotive. Da ogni slancio del desiderio, da ogni slancio empatico-emotivo, prende forma uno slancio del capitale. È uno statuto, questo, di certa poesia lirico-orfica, evanescente, misterica, banalizzante che sguinzaglia il mistero come artefatto di un alone che lo si vuole, lo si vorrebbe, come pratica mitica di una qualche forma sciamanica/sacerdotale di conoscenza. Se le comunità degli oppressi sfociano nel rito, il rito si dà come dimensione di forza-capitale, ad esso asservito, anziché mettere in atto pratiche concrete di messa in crisi e in discussione. L’estetizzazione diventa depotenziamento di un discorso deviante che muore lì, asservendosi alle grammatiche che lo opprimono.
Uno spettro si aggira per l’Europa e, a volte e nello specifico, per Parma – lo spettro della poesia. La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi, ma anche oppressi e oppressi (lirici e non, con i primi, però, che in certe modalità diventano forma delle pratiche autorali di produzione del capitale) sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta. Uno spettro, però, continua ad aggirarsi per l’Europa, è lo spettro della poesia. J. M. Gleize ci restituisce la formula per inquadrarne le dinamiche: lapoesia, ovvero una tradizione replicata, diremo, all’estremo, assunta come immutabile, senza trasformazione, esperienza acritica che possiamo considerare come incapace di relazionarsi al contesto. Più di tutto, ogni poesia che sia tale, nuova, ci ricorda, si dà come apoetica. Siamo, però, in un costante campo della nostalgia come marca esistenziale del desiderio-prodotto nel tempo del capitale estremo, iper-presente: “Haunting” – fantasma/ossessione – e “onthology”, stanno a indicare, in questa fusione (hauntology), una disgiunzione storica e ontologica in cui la presenza dell’essere viene sostituita da un passato inteso come origine che si pone come un fantasma, un’ossessione; condizione dettata dal suo non essere presente e neppure morto. In questo senso, l’abuso della nostalgia diventa dispositivo politico. Siamo, dunque, nel campo della mancata storicizzazione che Jameson riscontra nel postmoderno (ricorso al pastiche come mancanza di profondità e annullamento della storicizzazione) (La perdita del futuro, che dalla sua nostalgia si capovolge in una insistenza del passato, promuove una persistenza di forme riconoscibili nei termini di tecniche, tecnologie, soggetti: il carattere malinconico, etereo, spettrale, di certa lirica tende a organizzare uno sguardo languido su un passato indeterminato, rifiutando la storicizzazione, nel trionfo del non-definito). Già Elliot, fra il The Waste land e Tradizione e talento individuale, metteva in guardia e ammoniva su come l’assenza di futuro, in un contesto ridotto alle sole rovine (torna sempre attuale l’immagine di Walter Benjamin), finisca per decretare l’assenza di passato: se la tradizione non è più contestata finisce per essere svuotata, smette di avere un ruolo e una «cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura» (Mark Fisher, Realismo capitalista).
La poesia, in questa fase specifica che si vuole prendere in esame, si sviluppa come momento di guerra contro la poesia stessa, contro il senso comune della poesia. Siamo a Parma, l’oggetto in questione è un chip, non una lirica: pensiamolo senza ricorrere all’immaginario di cui siamo stati dotati da cinema e letteratura. Abbiamo un chip, una scheda minuscola, dei collegamenti strani, un uomo che forse è un fake e di cui non si conta nulla di ufficiale in letteratura, ma scrive e lo fa attaccando il senso della poesia. Le azioni, certe azioni autorali e non solo, non sono pacificate e non mirano alla costruzione di un pubblico, al massimo lo ignorano (e, in questo frangente, nell’articolo collegato, ne testimoniamo l’esistenza in un dato momento sul pianeta terra). Un autore, Cristiano Caggiula – come da titolo di questo intervento, che promuove un attacco alla poesia attraverso un sistema ESP32, ovvero un sistema basato su un microcontroller con wi-fi integrato, utilizzato al fine di portare a termine un attacco di deautenticazione, ovvero un denial-of-service indirizzato alla comunicazione tra gli utenti e i punti di accesso wi-fi: dall’intercettazione dei pacchetti alla disconnessione degli utenti. A questo punto, l’attacco alla poesia procede, dopo la disconnessione degli utenti, attraverso un processo beacon che ha come obiettivo quello di creare una serie di reti false il cui identificativo è un verso, da due a trentadue stringhe, che si frappone fra l’utente e la sua connessione caduta, dispersa. Ci ritroviamo, allora, a occupare diverse posizioni di deterritorializzazione della poesia: 1. In primo luogo a farla da padrone è l’occupazione di uno spazio che non è più la pagina letteraria, neppure il blog, il sito internet, l’installazione, la dispersione urbana, il manifesto, l’audio e altro ancora; nulla di tutto questo, ma l’occupazione di uno spazio atipico, esterno a ogni territorio, ma destinato a elementi solitamente “funzionali a” qualcosa. L’operazione, di fatto, rompe una funzionalità, interrompe un flusso e canalizza non il verso, ma la frase, nuda, estranea, nei processi di produttività/ottimizzazione/assoggettamento della quotidianità. 2. Le frasi, ancora, sono nude, nel senso in cui Gleize, in riferimento alle Iluminazioni rimbaudiane, parla di non monumentalità. Non dando vita a un testo compiuto, rimangono estreme e radicali, riformulano lo spazio della funzionalità, del dover essere funzionale, costruendo un momento che esclude il senso di derivazione occidentale – ma il senso, con Barthes, entra nelle cose per effrazione, ed è una posizione tipica dell’occidente – in questo caso, allora, le frasi restano oggetti extra-senso (possiamo dare libero sfogo alla semiosi infinita, senza però trarne qualcosa di arbitrario e definitivo) perché sono degli autentici spazi di crisi. Lo spazio-funzionale diventa uno spazio-di-crisi. La perdita della fascinazione nostalgica, materia di un capitale che spinge il capitale stesso, trionfa in una materialità inutilizzabile: le reti sono false, gli utenti disconnessi non possono utilizzarle, solo leggerle, ma senza una traccia di senso stabile a cui ancorare il discorso e la perdita di produttività.