La questione era già stata affrontata e risolta: intervista a Cristiano Caggiula
Francesco Aprile, Cristiano Caggiula

 

1) In un viaggio di ritorno dal Giappone, sorvolando le lande siberiane, nasceva per Lacan l’idea poi formulata sotto il nome di Lituraterra. L’Altro, per Lacan, ci piove addosso, nasciamo segnati, immersi nel linguaggio. L’immagine che evoca questa dimensione è quella, ancora, delle lande siberiane viste dall’alto, sorvolandone le tessiture, dove la pioggia, l’acqua, erodono, lasciano segni, tracciati, scrivono la terra come su un foglio. Se è l’altro che ci dona la cifra della nostra esistenza, punto a partire dal quale ci definiamo in quanto uomini, è all’altro che il discorso dei segni, della scrittura, guarda nell’ottica di un processo erosivo che la pioggia di significanti pone in essere sul soggetto, attuandone la disposizione e definizione delle forme di godimento e non solo. Le nuvole-significanti, l’altro, piovono sul corpo-foglio, erodono, scrivono, segnano, formano e nel segno di questa iscrizione il soggetto viene definito, svegliato e inciso, producendo, nell’incisione, nel sopraggiungere di un certo godimento, il trauma del significante, il quale chiama il soggetto a una risposta: la forma singolare del proprio godimento, la scrittura della propria lingua che non si affanna nel ricalcare il significante, ma si produce a partire dagli effetti di lingua di quest’ultimo. La scrittura, infatti, è erosione dilavante e nella lettera s’innesta il punto di articolazione fra sapere e godimento, simbolico e reale. Questa lettera-litorale è luogo di affioramenti; in quanto litorale è formazione di scarsa coesione, vede affacciarsi detriti – i quali si nascondono o riemergono – è tracciato fragile, multiforme, instabile, che apre alla non-permanenza, alla variazione. L’instabilità, allora, è il terreno privilegiato del tuo lavoro. Nel caso specifico, il tuo ultimo lavoro, “Da 2 a 32” è un territorio di instabilità progettualmente istituita nell’altro, un momento in cui la manipolazione denial-of-service e il processo beacon si pongono nei termini delle nuvole/significanti lacaniane. L’altro è scritto, ma anche sottoposto a straniamento, instabilità. Lungo quale orizzonte collochi la tua scrittura rispetto al contesto contemporaneo? Come agisce, quindi, il tuo fare autorale nel suo porsi nel mondo?

 

La prima cosa che mi preme di dire su scrittura vs. mondo è che non c’è nessun vincolo di necessità. Niente che solitamente caratterizza la produzione dell’artista, l’autore o il poeta, ha un ruolo determinante nel mio processo creativo. Se oggi smettessi di scrivere non farebbe alcuna differenza. Sono a mio agio come ronzio di sottofondo. A volte capita però che un sibilo si levi dall’ambulacro del tempio dell’assenza. Un evento imprevisto, un pensiero intrusivo mi apre le porte a una ricerca incompiuta nella totale incoscienza. È un momento ludico e violento.

Superata questa breve autoanalisi aggiungo che non mi occupo di critica; la poesia mi interessa nella misura in cui posso frammentarla e ricomporla in altre forme e materiali. Da un lato, utilizzo la materia come ispirazione poetica; dall’altro, come se dovessi compensare ciò che le ho sottratto, trasformo la poesia in ispirazione materica.

In “Da 2 a 32”, mi rivolgo all’altro come doppio tecnologico, al suo feto etereo. L’attacco di tipo denial-of-service rappresenta un tentativo di liberarlo dalla sua forma digitale. È il tentativo di restituire all’altro la sua naturale essenza, al di là delle rappresentazioni binarie e delle vibranti tensioni degli hertz. Volevo creare un oggetto poetico che, nel suo darsi al mondo-rete, lo modifica, ne annienta una porzione precisa, quella che il fare autorale ha scelto di sacrificare. Eccomi, batto alla porta dell’altro, mentre sono febbricitante e isolato in un monolocale di 30 mq. Se l’altro è essenziale, lo è nella misura in cui richiamo una risposta dalla sua stessità digitale. È questa pioggia di nuvole/significati, dense e oscure, che, sciogliendosi in gocce di beacon, più che formare, domandano: “Chi sei tu?”. L’attacco di deautenticazione è il tipico odore di pioggia che anticipa il temporale, mentre la domanda è celata nelle reti false, inutili e improduttive.

Quel “tu” attraversa costantemente numerosi cambiamenti, mentre la sua controparte digitale non è mutata nel senso tradizionale, ma si arricchisce costantemente di dati. I dati che lo rappresentano non cambiano nel loro contenuto fondamentale, ma crescono in quantità e complessità, popolando sempre di più lo spazio digitale.

Il doppio digitale, un’entità plasmata dall’esperienza della rete e di cui non abbiamo controllo, è il daimon, non più segreto ma incarnato nei nostri dispositivi, dell’io reale. Se la mia esperienza del mondo è profondamente influenzata da questo accumulo di dati incarnato, per noi inassimilabile nella sua vastità di informazioni e precetti, l’esperienza è soffocata e distorta; «Non sono gli oggetti bensì le informazioni a predisporre il modo in cui viviamo. Non abitiamo più la terra e il cielo, bensì Google Earth e il cloud».[1] “Da 2 a 32”, come poesia che si scioglie nell’etere, è l’avvelenamento di quel daimon. Ma nella propagazione più evanescente, nella codifica e nella decodifica, la poesia si polverizza e conquista una nuova spazialità.

 

 

2) Siamo, oggi, in un costante campo della nostalgia come marca esistenziale del desiderio-prodotto nel tempo del capitale estremo, iper-presente: “Haunting” – fantasma/ossessione – e “onthology”, stanno a indicare, in questa fusione (hauntology), una disgiunzione storica e ontologica in cui la presenza dell’essere viene sostituita da un passato inteso come origine che si pone come un fantasma, un’ossessione; condizione dettata dal suo non essere presente e neppure morto. In questo senso, l’abuso della nostalgia diventa dispositivo politico. Siamo, dunque, nel campo della mancata storicizzazione che Jameson riscontra nel postmoderno (ricorso al pastiche come mancanza di profondità e annullamento della storicizzazione) (La perdita del futuro, che dalla sua nostalgia si capovolge in una insistenza del passato, promuove una persistenza di forme riconoscibili nei termini di tecniche, tecnologie, soggetti: il carattere malinconico, etereo, spettrale, di certa lirica tende a organizzare uno sguardo languido su un passato indeterminato, rifiutando la storicizzazione, nel trionfo del non-definito). Già Elliot, fra il The Waste land e Tradizione e talento individuale, metteva in guardia e ammoniva su come l’assenza di futuro, in un contesto ridotto alle sole rovine (torna sempre attuale l’immagine di Walter Benjamin), finisca per decretare l’assenza di passato: se la tradizione non è più contestata finisce per essere svuotata, smette di avere un ruolo e una «cultura che si limita a preservare se stessa non è una cultura» (Mark Fisher, Realismo capitalista). In un simile contesto la tua posizione nel mondo della poesia italiana è vicina all’inesistenza, una presenza-assenza voluta e costruita restando ai margini di ogni discorso di potere (e Corrado Costa, nell’ormai nota lettera a Spatola, ammoniva: Scrivere poesia significa non compiere il sacrificio della conoscenza, non accumulare potere). Una rinuncia rimbaudiana, il quale scriveva “è falso dire: io penso; si dovrebbe dire mi si pensa. Scusa il gioco di parole. Io è un altro”, e così scrivendo apriva e rivendicava e mostrava una insanabile frattura nella struttura del linguaggio, la cui capacità espressiva, la cui aderenza al mondo appassiva e considerava nelle crepe, al contrario, l’esperienza del “reale” piuttosto che l’inutile rivolgimento della scrittura su una qualche forma consolatoria di realismo. Ma anche questo “reale” diventava l’impossibilità del dire e finiva per manifestarsi con l’abbandono, da parte dell’autore, della poesia; l’atto radicale, su tutto, prima e dopo la condizione della poesia. In questo senso, da un lato abbiamo la tua posizione estrema, di assenza, dall’altro gli improvvisi atti di messa in opera delle crepe del linguaggio attraverso una instabilità programmata e attualizzata ai significanti contemporanei (si pensi al cambio di paradigma che non è più un cambio delle forme, ma un superamento delle stesse in favore di un allargamento estremo del concetto di scrittura: cosa significa, oggi, scrivere?). Che posizione politico-esistenziale resiste nel tuo atteggiamento nei confronti del mondo della scrittura e, nello specifico, il mondo della scrittura italiana?

 

L’assenza mi garantisce autonomia. Sicuramente in questa assenza non sono né debitore né creditore: la poesia, i miei improvvisi atti che si insinuano nelle crepe del linguaggio, come dici tu, non sono oggetto di commercio o di approvazione. Non soffro della psicosi della pubblicazione e preferisco avvolgermi nel silenzio della mia quotidianità, senza clamore né fanfare. Elck, Niemand, sono un ‘%poeta%’ qualunque. Non ho nulla di cui lamentarmi.

Ora, rispetto al contemporaneo cosa posso dire? Nutro una repulsione nei confronti di una certa poesia che idealizza e cerca solo l’estetica, trascurando la capacità di mettere in discussione la realtà e di essere politicamente rilevante. Credo che la sintomatologia di questa incapacità sia da rintracciare nelle estenuanti lamentazioni contro l’industria editoriale o le università.

 

Restare ai margini del discorso del potere rappresenta per me la libertà di agire e di godere dell’oggetto che ho scelto di esplorare e, alla fine, distruggere, scomporre, rimodellare, per farne un nuovo gioco. Insomma, assenza non vuol dire isolamento o paura del confronto, è solo l’occasione per espandere lo spazio. Nel mio spazio di inesistenza, che alla fine è uno spazio altro e non mio, ho la libertà di dedicarmi a una pratica poetica che abbraccia l’incertezza, l’ambiguità e il cambiamento come elementi centrali. Preferisco tacere e agire.

 

A volte mi chiedo se quello che faccio sia effettivamente scrivere o fare poesia. Posso assicurarti però che è animato dallo stesso sentimento che sentivo quando distribuivamo le Schede letterarie nelle librerie Feltrinelli di Roma, litigando con i borghesucci seduti ai tavolini. O di quando attaccavamo i manifesti “Chiuso per DADA” sulle porte della Facoltà di Filosofia di Lecce. Oppure di quando vagavamo per tutto il Salento, megafono alla mano, gridando “Ordine!”, nel cuore della notte. Riflettendoci, questi sono tutti ottimi esempi di ciò che intendo per scrittura.

 

3) Parlaci della dimensione extra-letteraria che entra nella tua ricerca (asemic, glitch, nuove tecnologie).

 

Nella mia ricerca, cerco di includere strumenti utili a disarticolare il linguaggio. Se il linguaggio ritaglia e configura la realtà, è da lì che intendo partire per minare le basi del dissesto descritto da Fisher.

Provo a chiarire. L’asemic writing elimina il significato tradizionale, obbligando a nuove forme di lettura e interpretazione. La glitch art sfrutta gli errori per creare qualcosa di inaspettato, rompendo le convenzioni visive. L’errore non ha più una connotazione negativa, ma si configura come nuovo. Non importa più la bontà di un’interpretazione, ma la sua sconfinata e inaspettata possibilità.

Le tecnologie rappresentano un territorio fluido e potente. Hanno rivoluzionato profondamente il nostro rapporto con il mondo, ma la sfida principale è superare la nostra incapacità di comprenderle e utilizzarle. Come gli antichi maghi possedevano il segreto dell’armonia tra il mondo celeste e quello terreno, oggi le grandi aziende del tech detengono questa conoscenza esoterica.

Sui social ho letto post di poeti e letterati che discutevano del rapporto tra ChatGPT, arte e creatività. Mi ha fatto sorridere e rido ancora per quelli che identificano l’intelligenza artificiale solo con questo strumento. C’è un problema di ignoranza: tutti sembrano preoccupati che gli algoritmi generativi possano minare la creatività, come se temessero di perdere la propria identità di autori. Non è che tutti dobbiamo diventare esperti di come funzionano i Transformer, ma è significativo l’allarme generato da uno strumento che semplicemente rimescola testo e informazioni in modo probabilistico. Manca una critica, anche sommaria, di queste tecnologie in relazione all’arte. Forse pochi si sono chiesti: quali sono le implicazioni di questo strumento? Contribuisce alla creazione di conoscenza? È veramente utile? Come funziona?

Niente di tutto questo. Eppure, strumenti come ChatGPT, basati su algoritmi addestrati su una vasta gamma di testi, non solo rimescolano informazioni in modo allucinato, ma sono incapaci di generare nuova conoscenza. Questi strumenti rappresentano il più raffinato prodotto tecnologico del realismo capitalista, come teorizzato da Fisher. Sono costruiti per il mercato produttivo, non per l’arte. Gli algoritmi generativi rimescolano il vecchio spacciandolo per nuovo.

Nel 2021, durante l’esperienza con il Liminalismo, abbiamo utilizzato GPT-2, che all’epoca non interessava a nessuno, per generare elementi testuali che successivamente venivano frantumati e cancellati. La questione era già stata affrontata e risolta, almeno in parte.

Tornando al ruolo delle nuove tecnologie nelle mie ricerche, potrei dirti che non hanno più importanza di un foglio e una penna. La scrittura stessa è una tecnologia. In generale, credo sia responsabilità dell’artista intervenire nel digitale, per esplorare possibilità e limiti. Modelli di linguaggio come GPT-4o o tecniche di deep learning possono creare testi asemici o glitch art autonomamente, sfidando ulteriormente le nozioni tradizionali di autore e interpretazione. Ciò che mi interessa approfondire è l’elemento esasperante di qualsiasi dispositivo tecnologico, che un tempo portava all’esasperazione del corpo macchina, oggi all’esasperazione del pensiero.

 

 

Nota per il lettore

 

Il tono educato con cui mi rivolgo a Francesco Aprile è deliberatamente falso. Qui, purtroppo, ho preferito utilizzare un registro diverso da quello che con piacere riservo alle nostre conversazioni. Un registro che Francesco non manca di utilizzare con me quando, alle 11 del mattino, banchetta con i frutti di mare. Sono certo che anche lui approverebbe: è il momento di storicizzare le cose che contano.

 

 

 

 

 

 

 

[1] Byung-Chul Han, Le non cose, Torino, Einaudi, 2022, p. 4.