Angolanimi. Scrittura e segno in Bruno Conte
by Francesco Aprile

Conte B., Angolanimi, Fano, Mimesis / Il risorgimento della poesia visiva, 2016 – introduzione di Adriano Accattino

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Angolanimi di Bruno Conte è un testo che nelle interferenze e interrelazioni fra segno e parola riporta l’attenzione sulle possibilità di ampliamento dell’orizzonte poetico. Seconda pubblicazione della collana Il Risorgimento della poesia visiva, diretta da Adriano Accattino per l’editore Mimesis, Angolanimi segue, ad un anno di distanza, Atropoiesi dello stesso Accattino. Il libro affianca poesie lineari e interventi visivi, segnici, dove la dimensione tagliente del segno, come sottolineato in introduzione da Accattino, non è estranea a quella poetica, al contrario, le due province di senso sono ben lontane da occupare piani opposti, separati. Lo sconfinamento reciproco è dato evidente già in partenza. I segni vogliono «presentarsi come scrittura, non più disegno» (Accattino A., in Conte B., 2016, p. 11). Le poesie muovono da una scrittura sonora, a tratti ridondante. L’effetto di ridondanza corre a braccetto nelle due andature: verbale e segnica. Alle ripetizioni di suoni, di fonemi, Conte affianca l’invasiva iterazione dei segni e per contrasto si ergono, insieme, nel bianco della pagina, dove restano a volte marginali, minime, entrambe le formulazione poetiche, in un dialogo spazializzato con la materia e lo strapiombo del vuoto. La dimensione del vuoto, apparentata con quella del segno, sconfina nella parola, la quale guarda alle direttrici dell’haiku. Il carattere continuo del segno e quello diffratto della poetica di Angolanimi sono, dunque, facce della stessa medaglia. La presenza minima di parole e segni non è mai annullata dal vuoto strapiombo della pagina, al contrario risulta innalzata nel taglio che queste esercitano sulla superficie del foglio. La ridondanza permette il rimbalzo della lettura fra le due province segniche che concorrono alla costruzione del testo nella fruizione del lettore. Conte, pittore e scrittore di lungo corso, nato a Roma nel 1939, costruisce itinerari che dalla pittura segnica guardano con successo alle opere di scrittura manuale di autori come Emilio Villa e Martino Oberto. Del primo, però, è sovvertito il carattere vettoriale, a tratti segnaletico, l’indirizzare verso, che è spostato da Conte in una dilapidazione ritmica, annodando il carattere frantumato della poetica al segno in quanto “spreco”; i segni hanno un punto di partenza, una casa, data dal linguaggio poetico, dunque dalle poesie lineari della raccolta, e da quelle partono dissipandosi, disperdendosi fino a sparire. Riprendendo una felice formula di Conte, il paesaggio di se stesso (p. 18) si dissolve, oppure ancora i segni aprono ad un figurazione essenziale, costruita sempre sulla modulazione scritturale del segno, fondendosi nel testo e nei rimandi della lettura.

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