Il diritto e il rovescio della poesia visiva in Italia
by Adriano Accattino e Lorena Giuranna
La poesia visiva è il risultato dell’interagire delle figure e delle scritture in un processo di fermentazione creativa che adduce una quantità molto vasta di variabili e possibilità. Ad una estremità di questo arco si posizionano le figure che non hanno bisogno di reagire con scritture in quanto sono scritture esse stesse. All’altra estremità, esiste solo più la scrittura che non cerca immagini poiché già in sé trova quello di cui ha bisogno. Tra questi due estremi si stende un campo enorme caratterizzato dalle combinazioni più disparate dei due elementi, la distribuzione dei quali avviene in proporzioni sempre diverse. Su questo arco esteso di posizioni si distribuiscono i poeti visivi in una multiforme platea.
Dick Higgins, nel 1981, costruisce un grafico denominato “Intermedia chart” in cui traccia una serie di cerchi che si intersecano. C’è in alto un cerchietto con la scritta “Poesia visiva” che tocca direttamente altri cerchi, con le scritte “Poesia concreta”, “Poesia sonora”, “Romanzi visuali”; appena più in là si trovano i cerchi per i “Libri d’artista”, “Arte postale”, “Poesia oggetti”, “Fluxus”. Appena più in là si legge “Arte concettuale”, “Performance”, “Improvvisazione”, “Computer”, “Arte digitale”. Il grafico di Higgins rende visivamente qualcosa che anche io penso: la poesia visiva anima molte altre modalità di arte. Essa funziona come un filtro in una conduttura: per essa passano, nei due sensi, la “Poesia concreta”, la “Poesia sonora”, il “Libro d’artista” ed ”Arte postale”. Questo passaggio e questo filtro agiscono nei due sensi, poiché ad essa pervengono i flussi particolari e da essa partono altri flussi particolari. Ma anche in un senso più lato la poesia visiva opera, collegandosi ad esempio con l’”Arte concettuale”, l’”Arte digitale” e l’”Arte del corpo”. La poesia visiva sta sempre in mezzo in un collegamento diretto con le altre arti.
Dalla Poesia visiva si può tranquillamente passare ad altre arti: essa costituisce il fondamento di ogni altra ricerca e di ogni altra pratica. Non si approda subito al concettuale, ma al concettuale si trapassa attraverso la Poesia visiva. Essa è un raccomandabile esercizio. Potremmo anche abbandonarla o restare invece suoi fedeli praticanti. La Poesia visiva ha una propria concettualità di cui si fa continuo uso. Una pratica di poesia che sia cosciente è senz’altro concettuale. E poi quante opere concettuali sono opere visive secondo i nostri criteri. La concettualità è elevata dalla Poesia visiva al livello della concettualità delle opere concettuali.
La denominazione Poesia visiva evidenzia la confusione, con una pluralità di nomi differenti, tutti insoddisfacenti. La definizione Poesia visiva, che pure abbiamo accolto come la meno peggio, si rivela ambigua. Come si fa ad accogliere qualsiasi esito si produca con la denominazione di poesia? Tutto ciò che si fa in Poesia visiva è aprioristicamente denominato poesia. È tutta poesia e solo poesia ciò che si fa in Poesia visiva? Credo di no e per questo motivo non va bene la denominazione di Poesia visiva. Esiste poi la definizione Scrittura visuale, già meno perentoria della prima, anche se a sua volta è deprimente in quanto nella Poesia visiva non tutto è scrittura ma qualcosa d’importante e anche pittura. Scrittura visuale pur emendando le presunzioni della definizione “Poesia visiva” è ancora insufficiente a dichiarare pienamente le caratteristiche di questo procedere. Si aggiungono poi gli aggettivi visivo e visuale per evidenziare che si tratta di una pratica che ha a che fare con il viso, la vista, la visione. Questo significa che tale poesia non può leggersi ma si evidenzia allo sguardo. Gli aggettivi visivo e visuale si rivelano anch’essi insufficienti e limitati nell’approccio con gli esiti di questa pratica. Non basta dire poesia e scrittura (nemmeno visivo o visuale) per dichiarare tutto il vero. Ci sono altre definizioni come Verbovisualità, Poesia tecnologica, che connotano particolari settori di azione artistica. Ma in ogni caso così non c’è definizione in grado di rappresentare questo fenomeno creativo nella grandiosità delle sue possibilità. Quella che denominiamo Poesia visiva e che non è sempre e solo poesia, né tantomeno è solo visiva, è ancora alla ricerca di un nome che dica di più di quanto dicano poesia o scrittura.
Dobbiamo dunque reperire una definizione in grado di connotare un fenomeno molto dilatato, dalla pittura alla scrittura; con il coinvolgimento di lettere alfabetiche, immagini o figure; con il coinvolgimento di elementi che partecipano al processo creativo in proporzioni molto differenti; per un risultato che è statico ma si vorrebbe dinamico: un processo coinvolgente che non si arresta se non momentaneamente a esiti determinati ma prosegue nella sua offerta di una sequela di esiti. Dovremmo trovare due parole per dire tutto questo o almeno quanto più possibile di tutto questo. Non scrittura, non pittura, non pagine, non tavole, non esito definitivo ma qualcosa di imprevedibile ma fluente.
TRA LE RIGHE
Negli anni Sessanta la cosiddetta sperimentazione “verbovisuale” occupa un posto significativo nella volontà di trasformazione che interessava la cultura e le arti di quel decennio e rappresenta altresì un esempio non secondario di impegno politico degli artisti e degli intellettuali. Ma porre l’accento sull’aspetto visivo della parola significa anzitutto fare una riflessione sul linguaggio, percorrerne le possibilità, sondarne i limiti. Nelle ricerche verbovisuali la scrittura si mescola con le arti visive, tanto da confondere lo status stesso dell’autore e la sua provenienza culturale: artistica oppure letteraria. Da questa contaminazione nasce la sperimentazione poetico- visuale, esistente fin da tempi antichissimi – dai technopaegna di Simia di Rodi del IV secolo a.c. alle sperimentazioni “parolibere” futuriste – e situata sulla linea di confine tra più linguaggi espressivi.
Nel suo Corso di Linguistica Generale, pubblicato per la prima volta nel 1916, Ferdinand De Saussure postulava l’esistenza di una scienza dei segni, la Semiologia di cui tentava una prima teorizzazione. Nel 1919 Duchamp realizzava L.H.O.O.Q , opera ready-made della Gioconda in cui era proprio il testo con il suo ironico gioco dei significati a costituire il senso dell’operazione. La parola, il gioco di parole, smitizzavano l’icona più celebre dell’arte moderna occidentale. I due fatti, apparentemente in contraddizione, costituiscono in realtà due facce di una stessa medaglia. Scardinare le dinamiche del linguaggio, metterle in crisi, come era nelle intenzioni di Duchamp, e cercare di analizzarle e inserirle in un sistema come si sforzava di fare il linguista svizzero, sono infatti procedure che conducono ad un’unica intenzione: svelare la complessità del nostro sistema di comunicazione e porsi attivamente nei confronti del linguaggio, sia dal punto di vista artistico, sia da quello teorico. Nel panorama delle ricerche verbovisuali internazionali che prendono il via da una profonda meditazione critica sulle avanguardie storiche (1), spicca l’attività dei concretisti (2). La poesia concreta nasce e si sviluppa dalla prima metà degli anni Cinquanta intorno al gruppo dei poeti brasiliani Noigandres (di cui Ronaldo Azeredo, i fratelli Haroldo e Augusto De Campos, José Lino Grünewald e Decio Pignatari sono le figure di riferimento) e all’attività di Eugen Gomringer.
I poeti concreti portano avanti le esperienze dei futuristi e in particolare le marinettiane “Parole in libertà” del Manifesto tecnico della letteratura futurista, in cui si assiste all’abolizione della sintassi e alla centralità della parola che appare in tutta la sua fisicità nella pagina. Come pure paiono richiamare le sperimentazioni dadaiste di artisti come Hugo Ball, Kurt Schwitters e di Duchamp. In definitiva, nel concretismo, il corpo della parola scritta era prelevato e impiegato come un oggetto trovato, come un ready-made. Riprendendo l’espressione di Luigi Ballerini a proposito dei lavori futuristi, “c’è ancora il contenuto e c’è la forma, e sono ben distinti, e il primo viene per primo e la seconda per seconda”, ma nel caso dei poeti concreti, qualcosa di decisivo che va verso la fusione dei due campi (forma e contenuto), è avvenuta. Adesso il linguaggio si colloca al centro, non è più solo tramite espressivo del significato. Si vedano in proposito alcuni lavori esmplari. In Forma, di Grünewald, la parola è titolo, oggetto e soggetto (oltre che strumento per la sua realizzazione) dell’opera: le parole “forma, reforma, disforma, transforma, conforma, informa” – e poi ancora – “forma”, sono disposte di seguito una sotto l’altra per indagare linguisticamente i vocaboli e i loro significati derivati e al contempo, del tutto automaticamente, creano ed esibiscono una forma visuale, come suggerisce il titolo. Si comprende come tutti gli elementi (parola, immagine, significante e significato) siano strutturalmente agganciati l’uno all’altro a costituire un nuovo DNA della scrittura. Pignatari veicola il senso delle parole utilizzate verso un impegno politico rivolto in modo pionieristico alla critica sociale delle multinazionali: in Beba coca cola, del 1957 le parole “beba coca cola” si trasformano, nel breve viaggio verticale lungo la pagina, nel vocabolo, internazionalmente inteso, “cloaca”. E ancora, Gomringer, in un noto lavoro del 1954 introduce, anticipando i tempi, un aspetto concettuale dell’uso visivo della parola: costruisce tre colonne di testo con la parola “silenzio”. Il ritmo regolare e ripetuto della scrittura si spezza però nel centro della pagina, creando uno spazio in cui la parola è assente. Quel vuoto evoca l’aspetto fonetico della scrittura: attraverso la sinestesia percepiamo il silenzio provocato dall’assenza verbale. L’attenzione per l’aspetto fonetico della parola è il contributo principale della rivoluzione sperimentale del Futurismo. Figure di raccordo tra la cultura futurista italiana e le ricerche internazionali appena citate sono gli italiani Carlo Belloli, Adriano Spatola, e Arrigo Lora Totino, poeti concreti anch’essi. Di Belloli, è significativo l’uso spiazzante della scrittura come elemento attraverso cui l’autore costruisce fisicamente la narrazione. E’ il caso della serigrafia Città. Un emigrante del 1975 in cui compaiono le parole: “città, case, piazze, fontane, giardini” disposte ad anelli concentrici come le gradinate di un anfiteatro, al cui centro c’è il piccolo emigrante, ovvero la scritta “un emigrante”, con la sua grande solitudine a fronteggiare il panorama. Nella serie dei “Corpi di Poesia” (3), Lora Totino esplora invece il paradosso della concretezza della parola attraverso la tridimensionalità. Nel 1967 realizza quattro “Fonemi plastici”, di cui eé , dell’anno successivo, costituisce un esempio “esistenziale”: su un piano tridimensionale sono disposte le lettere “e”, una sola delle quali si erge nella versione accentata su un piccolo cubo, quasi ad evidenziare, come afferma Mirella Bandini “la tridimensionalità dell’essere” (4). Oltre al riferimento alle arti visive e alle avanguardie storiche, per comprendere le evoluzioni delle forme di poesia sperimentale – specialmente rispetto alle esperienze italiane di rilievo avvenute dopo gli anni Sessanta come la Poesia Visiva, il Gruppo ‘63, la Nuova Scrittura – è utile tracciare un quadro di riferimento sullo stato della poesia contemporanea, abbinato a qualche divagazione sul dibattito linguistico di quel tempo. La dura sequenza di eventi che dalla Seconda Guerra Mondiale portò al boom degli anni Sessanta non poteva non minare la tradizione poetica e, ancor prima, la riflessione che poeti e letterati dovettero fare sul proprio ruolo di intellettuali. La figura del poeta come sommo custode del patrimonio letterario dell’umanità risultò all’improvviso troppo distante dalla realtà. Si assisteva ad una sorta di rifiuto del lirismo classico, sostituito dalla ricerca di un codice alternativo, più vicino, o meglio, dentro l’attualità e la sua deformazione mediatica. Percorrendo brevemente le tappe principali dell’evoluzione poetica del Secondo Dopoguerra, si può rintracciare nel confronto tra una figura cardine della poesia italiana contemporanea come Eugenio Montale e un letterato spregiudicato (e vicino alle nostre ricerche in campo verbovisuale) come Emilio Villa, un primo esempio della disgregazione del codice lirico. Nella raccolta di Montale Le Occasioni, pubblicata nel 1939, emergono già alcuni segnali di rinnovamento in senso moderno che saranno sviluppati negli anni Cinquanta: una certa durezza delle metafore, le similitudini secche, il ricorso al fonosimbolismo e all’assonanza insistita; ma il codice poetico si nutre ancora di classicismo, sebbene sia un classicismo novecentesco, come dimostrano l’utilizzo frequente del verso endecasillabo o i riferimenti alla poesia cortese e dantesca. Leggendo un’opera di Emilio Villa degli anni Cinquanta, il poemetto Diciassette variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, si assiste a un fatto centrale e di profonda lontananza con il classicismo di Montale: la scomparsa dell’io lirico. E non solo: il linguaggio non è più depurato, il lessico è quotidiano, privo di filtri, ricercatamente oggettivo e denso di inserti eterolinguistici, tratto distintivo del poeta. In altre parole si assiste alla nascita di un linguaggio poetico sperimentale vicino alla realtà, e non quella interiore, bensì la realtà delle cose, della ricercata oggettività, dell’ironia che è solo apparente (il dramma è costituito dalla sensazione di racconto piatto, appunto). Emilio Villa fu un indagatore di linguaggi artistici. Conosceva, utilizzava, fondeva e rimescolava diverse lingue occidentali (il francese, il provenzale, l’inglese e lo spagnolo) e le combinava al latino, sdrammatizzando così la loro aura istituzionale. Villa recuperava dal passato remoto dell’umanità alfabeti mesopotamici e fenici, costruendo tavole poetiche di forte impatto, riferibili alle ricerche verbovisuali per l’uso alchemico e personalissimo del linguaggio. Su un versante più aggregativo e documentativo si collocano le esperienze letterarie che gravitano intorno alla rivista di Luigi Anceschi, “Il Verri”, fondata nel 1956 e presto divenuta un punto di riferimento per le esperienze poetiche internazionali. Intorno alla rivista nasce un progetto di raccolta antologica di poeti sperimentali riuniti ne “I novissimi” di cui fanno parte Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani (che è anche curatore della raccolta), Elio Pagliarani, Antonio Porta, Edoardo Sanguineti. I poeti si impegnavano a fare del linguaggio la vera forza attiva della loro ricerca, con svantaggio dell’io lirico, ormai ridotto al grado zero. “I novissimi” inauguravano una nuova stagione della poesia, forti di una consapevole indagine sul linguaggio. Alfredo Giuliani, critico ed esponente del gruppo, promuoveva una certa autonomia della scrittura poetica dal passato, dalla prospettiva diacronica dei linguaggi: la poesia contemporanea esalta la lingua “straniandola dalle sue proprietà semantiche, lacerandone il tessuto sintattico, componendone l’armonia, e ricostruendola in ordini provvisori violentemente sincronici”. (5) Anche dal punto di vista del contenuto si tenta un allontanamento da un certo passatismo, per dirla con Martinetti, dalle influenze della stagione crepuscolare. Giuliani afferma che “per capire la poesia contemporanea, piuttosto che alla memoria delle poesie del passato, conviene riferirsi alla fisionomia del mondo contemporaneo”, (6) per poi definire efficacemente la nuova poesia: “strozzata apparizione, rito demente e schernitore, discorso sapiente, pantomima incorporea, gioco temerario, la nuova poesia si misura con la degradazione dei significati e con l’instabilità fisionomica del mondo verbale in cui siamo immersi, ma anche con se stessa, con la sua capacità d’invenzione”. (7) Essendo dunque la poesia non uno strumento di conoscenza, ma un modo di avvicinamento e di contatto col reale, le compete il territorio dell’azione, della militanza. Nel 1963 nasce a Palermo lo storico “Gruppo 63”. L’intento è evidenziare tutta la portata innovativa del panorama letterario internazionale degli anni Sessanta, compresa l’ingerenza delle avanguardie del Novecento, da Ezra Pound ai Futuristi, da Mallarmé ai Surrealisti. I caratteri fin qui delineati di allontanamento graduale dai valori classici del fare poesia, la scomparsa dell’io lirico, l’esibizione del linguaggio e dei suoi meccanismi, si sviluppano nelle ricerche di un gruppo di poeti ed artisti che, sempre nel 1963 ma a Firenze, si riunisce nel “Gruppo 70”, per portare avanti il dibattito poetico aggiungendo la componente visuale. Proprio in virtù dell’aspetto iconico delle loro opere il gruppo darà alla propria pratica il nome di Poesia Visiva, o Tecnologica. Il gruppo, nato dall’incontro tra Eugenio Miccini e Lamberto Pignotti, a cui si accostano in seguito anche Mirella Bentivoglio, Giuseppe Chiari, Ketty La Rocca, Lucia Marcucci, Luciano Ori, Michele Perfetti e il giovanissimo Sarenco, condivide l’idea che il linguaggio letterario si stia avvelenando a causa di uno sperimentalismo insistito e fine a se stesso che condanna la poesia all’illeggibilità. Gli artisti propongono allora uno stile nuovo e immediato, che attraverso l’aspetto visuale faccia direttamente breccia su un numero elevato di persone allo stesso modo dei mass-media. Tecnicamente i poeti visivi si avvalgono della tecnica del collage, del prelievo di materiali massmediali, uniti ad una pittoricità volutamente grezza. I testi così costruiti si fanno veicolo di messaggi politicamente e socialmente impegnati, creando uno shock semantico sul piano dei contenuti: se l’estetica del mass-media è associata al messaggio rassicurante del linguaggio pubblicitario, il lavoro dei poeti visivi scardina questa relazione, costruendo significati a sfondo sociale e politico proprio attraverso quei media che si vogliono indagare o mettere in crisi.
L’impegno dei poeti visivi non è solo artistico in senso stretto, ma anche critico, data la provenienza dall’ambito letterario dei fondatori: Miccini ha origini di poeta post-ermetico, Pignotti è letterato, saggista poeta, oltre che artista. Letteraria è anche la formazione di un altro artista italiano della verbovisualità, Ugo Carrega, (scomparso nell’ottobre del 2014), ideatore già negli anni Sessanta della “Scrittura Simbiotica”, della “Poesia Materica” e della “Nuova Scrittura”, che, da teorizzazione di un nuovo modo di intendere il rapporto tra il significante e il significato nel complesso universo dei segni, diviene, nel 1975, un collettivo artistico con proprio manifesto. La Nuova Scrittura non ha un orientamento univoco, ma di certo si possono identificare le intenzioni comuni ai membri del gruppo, come quella di portare avanti una pratica della scrittura come analisi dei suoi processi interni da cui deriva «la materializzazione della scrittura stessa e l’uso radicalizzato del senso teso a superare la mera articolazione nominale”. (8) Lo stesso manifesto della Nuova Scrittura nasceva all’ombra di Derrida, quindi subiva l’aspetto più legato al mentale. Derrida attribuiva ad ogni segno una potenzialità comunicativa, ma sosteneva che la scrittura fosse una realtà totalmente autonoma rispetto al linguaggio verbale e individuava in essa una serie di potenzialità altissime rispetto al modo di intenderla come mera trascrizione del suo aspetto fonetico. Il percorso degli artisti che legano la propria ricerca alla complessità totale del linguaggio ha una radice poetica e una tensione “politica”. Tutti partono dalla scrittura ma arrivano fino agli ambiti più vari dell’espressività, dalla poesia al racconto, dalla pittura alla materia, dalla scrittura al pensiero, dalla parola al suono, alla musica, alla performance. Il loro è un viaggio iniziatico, uno studio volto a smascherare i paradossi della comunicazione verbale che a volte approda, consapevolmente, a dei non esiti. In tempi più recenti gli artisti impegnati sul fronte della verbovisualità hanno mantenuto le loro poetiche dominanti, i loro interessi specifici, evolvendo però, necessariamente, in direzioni autonome gli uni dagli altri. Dopo la grande rottura degli anni Ottanta, segnata da un faticoso ripiegamento verso il passato e la fine delle grandi ideologie, il complesso panorama dei “gruppi” nati negli anni Sessanta si disgrega. L’epoca postmoderna, di cui si sente ancora l’eco, ha portato una rivoluzione altrettanto importante: la frammentazione che, se da una parte ha creato isolamento, dall’altra ha reso possibile un recupero individuale e approfondito degli interessi culturali propri di ogni artista e il confronto con i più recenti strumenti di comunicazione ed editoria. Gli artisti e studiosi del linguaggio sono diventati esploratori di se stessi, della storia, della cronaca, delle arti, del web. Nel mondo dell’arte vi è ancora molta attenzione per l’uso del linguaggio e della parola poetica e per la conservazione di chi ha posto le basi di tali questioni. In Italia alcuni musei hanno nelle loro collezioni diverse opere di poeti verbovisuali: dal MART di Trento e Rovereto al MA*GA di Gallarate, dal Museo Novecento di Firenze, fino a realtà più piccole che hanno destinato la loro ricerca alla poesia sperimentale come ad esempio il MACMa di Matino (Le) o il Museo della Carale Accattino per la poesia sperimentale e visiva di Ivrea (To).
(1) Questa meditazione porterà alla nascita delle così dette seconde avanguardie, in cui vengono riprese e approfondite le sperimentazioni di ambito futurista, dada e surrealista
(2) Non a caso il termine “concreto” è deliberatamente mutuato dall’arte, dall’espressione “Art Concret” titolo dell’omonima rivista fondata nel 1930 da Theo Van Doesburg, con la
quale si definiscono le esperienze astratte in cui viene ricreato un linguaggio pittorico fatto di elementi linguistici strutturali puri come segno, forma e colore
(3) Termine mutuato dallo stesso Belloli
(4) Mirella Bandini, Il teatro della parola di Arrigo Lora-Totino, in Arrigo Lora-Totino. Il teatro della parola, a.c. di Mirella Bandini, Torino, Circolo degli Artisti, 18 maggio – 30 giugno
1996, Lindau edizioni, Torino 1996, p. 22. Il testo della Bandini ripercorre le tappe principali dell’evoluzione artistica di Lora-Totino, che vanno dall’ideazione delle “verbotetture”
all’indagine degli aspetti fonetici della parola che condurranno l’artista ad esiti altamente sperimentali come “la poesia sonora”, la “poesia liquida” e la “poesia ginnica”
(5) Alfredo Giuliani, I nuovissimi. Poesie per gli anni ‘60, Edizioni Einaudi, Torino 2003. p. 3. la prima edizione della raccolta di poesie, curata da Giuliani, è del 1961 (Milano, Rusconi e Paolazzi editori)
(6) Ibid.
(7) Ibid, p.7
(8) Tratto da Vittorio Fagone, in “Raccolta Italiana di Nuova Scrittura”, Ed. a cura del M. d.
S. Milano, 1977, p. 5
RIFLESSIONI SULLA SCRITTURA POETICA DI EMILIO VILLA
Innanzitutto dobbiamo precisare che la scrittura poetica di Villa è cosa diversa dalla scrittura visuale, infatti scrittura visuale è una categoria molto più ampia della scrittura poetica in quanto solo in pochi casi la scrittura visuale diventa scrittura poetica. Nel caso di Villa il raggiungimento della poeticità è frequente in virtù della ricchezza ed abbondanza del suo elaborato. La sua ricerca è molto diramata e coinvolge più campi di indagine e più strumenti di analisi. Possiamo individuare almeno quattro indirizzi di lavoro: in primo luogo la componente visuale del suo scrivere. L’ambizione estetica è facilmente rilevabile ad un primo impatto dello sguardo in quanto le sue pagine sono vere e proprie tavole visive, cioè non più solo pagine ma composizioni apprezzabili alla vista, senza necessità di lettura. Questo effetto è determinato dalla particolare disposizione delle parole nello spazio della pagina, dall’uso di inchiostri di colore diverso, dal movimento impresso dallo spostamento di frasi, dalla disseminazione di macchie, correzioni, frecce, sovrapposizioni di parole o lettere. Così la pagina di Villa appare come un campo di battaglia, un luogo movimentato dalla passione sicuramente estetica che la rende completa e autonoma già di per sé. Inoltre i testi poetici di Villa si raccolgono intorno a parole icona come Sybille, Labirinti, Trou, Mottetti, Taroc, Demoni, Zodiac. La datazioni dei suoi lavori poetici si ricava talvolta indirettamente dalle indicazioni che compaiono sulle carte di varia provenienza da lui utilizzate: buste di posta ricevuta, inviti a mostre, e altra posta. Un secondo aspetto della scrittura di Villa, altrettanto importante quanto la sua tensione estetica, si riscontra nell’articolazione sonora dei suoi testi. Villa è molto attento al gioco musicale delle parole, instancabilmente ricerca assonanze e consonanze, affinità sonore nel corpo delle parole. Produce elenchi di parole che via via variano per sostituzione successiva di lettere o sillabe che producono effetti sonori apprezzabili di per sé. Nascono così sequenze di parole che nel modificarsi continuo danno origine a un effetto musicale. Villa si rivela esperto conoscitore della metrica latina di cui lascia ampia testimonianza con l’uso degli accenti breve e lungo in numerosi testi. Un terzo elemento della complessità dei suoi scritti è costituito dal linguaggio nuovo che crea di continuo. L’ invenzione continua di parole può trovare ragione nella sua conoscenza di molte lingue di cui alcune straniere in uso ed altre invece morte cui conferisce nuova vitalità. Questo effetto linguistico espansivo è anche sostenuto dall’insofferenza di regole grammaticali e sintattiche: Villa pratica la libertà nella scrittura ed obbedisce esclusivamente al proprio istinto. Da questo atteggiamento derivano sia una offerta abbondante di termini e vocaboli sia talvolta un’oscurità di comprensione nei modi tradizionali, ma anche un’apertura linguistica e un’efficacia espressiva secondo nuovi canoni sconosciuti. Dallo spiazzamento linguistico, dal coinvolgimento visuale e sonoro che i testi villiani producono si genera un effetto emozionale che, se proprio non coincide, almeno rasenta la poesia.
Sarenco
Bravi!
Sarenco