Narrazione di una catastrofe
by Cristiano Caggiula

 

Il passo non è svelto, si procede come scarafaggi. Un nuovo mondo si stende leggero. Sperare e nascondersi.
Inseguo la volpe, risalgo il serpente secco dell’oasi arida.  Questa mi appare come una valle stracolma di violenza, mentre la volpe crea un paesaggio mai esistito. 

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Venti di scirocco ribollono nella valle delle balene.

Ti vedo, raduni la forza lavoro sufficiente per parlare. La lingua è un cesello di rame che lavora un blocco di arenaria. Tutti i ferri sono lucidi alla testa. La domanda è al centro del monte e punge il colore della cera.

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Ogni albero è un animale gigantesco. Molti  sprofondano nella terra come vertebre di balena, come tombe monumentali. Straordinari esempi di architettura che continuano ad affascinare il mondo.

La strada, un delirio verso il puntamento del senso. Il serracchio, seguire il canto al di là dei rami, il  terremoto, la pioggia di fibre sulla terra rossa, i cardi d’assenzio.

Nella campagna il concetto di storia non ha odore.

Non posso romanzare il tempo, ma il tempo è essenziale nel romanzo. Vado sempre nella stessa direzione, come una rotaia molto vecchia mai sostituita. C’è tempo per arrivare alle coltivazioni. Il passo successivo è sganciare i carri.

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La strana ossessione per i moti del profondo mi manda ai matti. Tutto appare lontano, come un sogno che ricordo all’improvviso quando è metà mattino. Qui si ritorna alla catastrofe. Oasi di ossa nella valle delle balene, dalla civetta che miete la notte, allo scirocco che fluttua sulla pietra bianca. 

Nel dettaglio, la previsione per la terra del venerdì è nebbia di paglia che soffoca Venere. Mi parli della catastrofe che ti ha tolto la parola, ma la luna fa paura perché corrisponde sempre all’attesa. 

Non sento più il respiro di succhione. Penso a nonna che insegue le galline e al pappagallo che pende dall’albero. Guarda la terra, si troverà ancora lì al sorgere del giorno nuovo?

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Mi racconti delle pagliare, ma quello che facciamo non è poi così diverso, no? Aspettiamo l’arrivo dei sacrileghi, in fondo. Nessuno ne parla da quattordici secoli. Oggi siamo una minaccia per la famiglia reale. Le possibilità di sopravvivenza sono inesistenti. Il lavoro è una macchia di dattero dove bruciano le palme.

Qualcuno ha detto che è impressione dell’età, ho il desiderio di fermare il tempo. Ma in questo abisso si concretizza la paura di una vita… avrei fatto meglio a non tornare.

Serve un piano. Per esempio, sollevare la gamba dalla serra quando non puoi camminare. Solo negli anni Ottanta ci siamo resi conto della storia agghiacciante che nasconde l’orizzonte. Sotto i nostri piedi si posano le catacombe.

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Sofisticati ingegneri del discorso suggeriscono che il tempio è impossibile da costruire. Allora andiamo al castello e decidiamo di chi parlare. Ho un personaggio che mi ronza intorno. Penso agli egizi e all’irrigazione del sole.  

Ho il dovere  di farmi seppellire e  restituire le foglie morte. Dalla pietra nasce l’olivastro e vedo Paolo camminare nell’oasi delle ossa, accecato dalla rappresentazione del paradiso. Non c’è più ottobre, non si muove novembre.

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L’imperatore preparato alla morte, l’imperatore vestito di morte. I sacerdoti sono in attesa delle linee guida. Si cercano i rami  produttivi. Sopravvivono i pochi figli della gemma latente. Sacerdoti e sudditi vogliono sradicare l’imperatore. Prima andrà rifocillato con un ramo a frutto, poi lo condurranno alla valla delle balene, suppongo.  Immagino le ossa torcersi dentro la sua pelle.

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Alberi possibili al di là dell’ignoto. Potatura gialla e il problema della riqualificazione della forza lavoro. Siamo cime ideali catapultate in una valle remota e incredibile.  Scende la notte nella valle delle balene, dove bruciano le palme, dove comincia la via vecchia.

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Ti spiego come imboccare la via vecchia. Tutto comincia dalla storia.  Dovrai pur conoscere la storia dell’idiota che apre la porta e cade dal ponte. Dalle mie parti raccontiamo anche di come si cade nel fiume. Raccontiamo meno delle persone che trasportano sonno ai morti. Venti di scirocco ribollono nella valle delle balene.

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È un’impressione dell’età il desiderio di fermare il tempo. In questo abisso si concretizza la paura di una vita. Ho le parole impigliate ai rami, ho la lingua impigliata ai rami, ho l’anima impigliata ai rami. È ora di andare.

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Nel viaggio di ritorno  manco la punteggiatura. Corro dritto verso le tue mani d’asfalto. L’anello s’impossessa del discorso.Non devo interrompere il digiuno. Accarezza con me la piana di erba secca, la terra dei faraoni, la distesa inospitale. Disperazione e confusione dappertutto, il mistero aleggia attorno al comunismo dei campi. La rabbia è la nuova avanguardia.

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