Estratti da “Un semplicissimo universo inespanso” (Nino Aragno Editore 2019)
by Michele Fianco
del prepoté, del prepotere!
che delirando la, sol′a lasciarcela a ballalòre a lontanarla llà
a non ci ì, non ci ì
a late′ ridere, se si può fàcere
a dismisura a ritornella llà
a non ci ì, non ci ì
o ′rientivando la, più dell′umano m’ammaglia a dire lo, colora a nubbe e dole e dubbe
straulifòrme, straulifùme;
se ti sei morto molte volte e molto desòssi fosse che ciriòcca e sbocca del prepoté, del prepotere
di un′amatura, ora, qualora more
di un minorare, andando, quando mìnora del prepoté, del prepotere
se a ′lontanando si, s′a llate′ late
s′a llate làtita
o ammàina résosi o animala llà
a particelle, ad una ad una infami;
ma non si può, non si può dire
il serpe, il sòffoco e stìpite e làscito l′intraficcando la, tutta materia
s′ ammazz′abbàssa lo satana il mamma o lìqueo l′inguine e il polline o d′aria non oltre, non oltre
di tutt′impèrvida ′sta storia, e riecco
le mia le tua finita, inverni tu?
ma poi, ma poi
non più sdrùpede e di fame…
del prepoté, del prepoté ch′evànesce (!)
quest’immodernità!
che ′st′immodernità che sbatt′attorno torna,
de ′st′immodernità che viva tu…
in fil′ infilastròzzati del dire,
ti slega l′allontan′allora statte,
statte,
s′a sfascio d′occhi che, né di narciso, ma il piego e il sole, tanto, e frega più…
lo smetto il filo, e s′apr′ immetto tempo al tempo,
non è moderno gire per di qua…
o il niente al niente dare da mangiare
o il segno materiale dello sguardo
guarda
(per possessione tacerò sui nomi),
che… il mondo del mondo di un mondo fa!,
è detto che fu un quasi suicidarsi, darsi
del secolo innatùro e contra te… riinoculando l′ironia volgare
e d′una giussociàle materiata
e atta
dell′ individuo allàppo fare grosso, a sverniciare l′unicum di me…
il fiato, il fiato piove e slanda tutto, tutto,
o gli angioli non tornano mai più?, che dico e perforato, un solo buco, né habitus, né voglia mia del resto resta
all′ombra che combatte e che rimane de ′st′immodernità ch′ammazzi più!
numero ironico 501
visto? solo slanci, cose da poco,
solo fatti di breve borghesia,
un pranzo, un dire, l’amore, un trasloco, insomma starci ma tu eri via
visto? non m’hai visto, non mi vedevi – sentivi e senti forse – e te l’ho chiesto no, non è tempo – giusto! – non potevi (da chissà quale mondo disonesto…)
visto? un’eco, il vento, la ferrovia, riposammo già col futuro dentro,
dentro la buca di un finale e via –
tu non c’entri più – ma io busso ed entro
visto? preesistemmoci – io ridevo – perché era vero, perché eri tu, certo, perché parlare, perché questo devo? bellissima, non ti va, mi diverto
visto? tu mi ami di un odio sincero, la tavola pronta, gli ospiti, i vini,
io no, io t’odio d’un amore vero, sai, il rumore dell’addio non l’affini
visto? è tornato poi quello che era, un incontro, una cura da inòculo che era all’inizio, che era paura – sangue basso, disillusione in circolo
visto? la vita che muore la vita,
la vita che ammazza la vita ancora curioso fare, curiosa partita
dove, barando, perdo ora per ora
villino trifamiliare – primo appartamento
ma non esiste questa testa, questa
che in questo mondo dato fermo, fisso, non i giorni, le luci, un coso esploso,
ti dico, non esiste questa testa
che scivola e innamora, e batte intanto e svuota e risale via in alto e in quota,
e dillo! non esiste questa testa,
poi t’incontra in un abbraccio ma senza dire niente che poi è già tutto detto,
vedi che non esiste questa testa?
che ti vede e ascolta e gli fai tu tutto, tutto un dì, un cicaleccio intanto intorno
se poi non esistesse questa testa sarebbe uguale, sarebbe lo stesso
lo stesso tutto di sempre ugualmente
e se invece esistesse questa testa?
e fatto in modo che il tempo non giri,
tu a un passo e non ti prendo, ché estèmpori,
ma non esiste questa testa, amméttilo, non esistono mani che ti sfiorano, sfioriscono almeno le mani mai…
viale mondo
viale mondo, centrale viale,
dove la via, via via, sale
che trovi un incontro, un incontro che quell’incontro sei tu,
se dio vuole, ed era da andare,
sì, da lasciare accadere,
disparo anno pure se paro,
notte notturna di più
ti ho offerto un po’ tutto quello che c’era in quest’angolo bar,
facile in fondo l’asciugo dei cieli,
la luce dei mari
e il fondo davvero, uno specchio dove io nonché il viso mio
e tu, il viso uguale, di rara armonia di momenti rari
ma non ora era il gioco
quello del dire, quello del fare non è questa la strada che
dico, non ti ho mai detto questo se non le vite dove vanno
a girare dentro e di più,
dentro di sé invece di andare ma di andare all’amore,
tutto il bisogno, bisogno mio, peccato di verità
un tocco toccato di fretta, che potemmo ma di fretta ma fino al vivo del vivo,
nel letto di un letto non basta in testa di testa, di cuore
nel cuore e tu dammi retta
le parole per noi sono già state scritte in ogni parola,
da sempre e per sempre con tutto l’io che posso e che ho potuto
finora e con ora sul viale
del mondo, viale centrale
che arrivai in tempo, giusto in tempo, per vederti salutare
(e fu forse anche una lacrima tua ma dalla vita mia)
faccio tutto!
faccio tutto, facci caso,
pure se ho scritto per te tanto, tenendoti il muso, sì,
ma almeno un milione di frasi intanto ti ho detto e ti ho fatto
e cantato almeno decine di standard anche se tutto vuoto è intorno,
già, come sempre era stato…
faccio tutto, faccio ancora,
che a imparare si sbaglia, sempre, soprattutto imparando
una strada, una cosa, ecco, la vita
falla e sta zitto, tutta,
quella che viene, sì, faccio vita
ch’a impararla si sbaglia
ma non, però, di qualche attimo in giù…
faccio padre e madre, faccio io, da un tempo che si perde,
e facendo di me, di me che – che poi l’ho fatto di te,
l’ho fatto di tutti, d’ogni – sbagliando – con chi poi ci è stato e chi no, e non dire perché,
farei di tutto un perché…
perché il tempo è questo, ecco, tempo faccio (ho fatto il mio) tempo che non c’è, che non arriva, non son questi i pianeti,
non è questa la storia,
la geografia, ma – vero! – faccio, sì, anche qualcosa di più,
di più che ci ho perso la faccia…
faccio tutto, tutto in rincorsa,
un lavoro, un amore e stare,
e stare e aspettare, allora aspetto
a pensare ma il pensiero
non viene, non parte il concetto,
non parte più niente, certo,
non so cosa faccio per farmi campare, non so spiegare…
faccio tutto, faccio scuola, faccio luce nella tua vita
che vedi e rivedi e hai rivisto e non hai mai capito mai, sai, così inghiottita,
pensi di averla fatta tu la mossa,
credi, quando il tempo,
quando questa storia di storie muore…
ma alla fine, ultima ipotesi,
faccio sempre, mentre
merda fuori piove, sì,
ne piove tanta e non ti ripari
e alla fine non la senti più andando, come tu,
ché alla fine, ultima ipotesi, citòfoni mondo…
(ma strani i voli tuoi,
non cadono veramente mai!)
Un discorso pulito [Intervista a se stesso con invito a pranzo]
Tutto quel che tranquillamente, pensa.
“Ha ragione la pianta, il perimetro del celeste da calcolare. Di là invece non saper guidare, non saper fare punto da mangiare e dipendersi così negli anni e negli anni sempre. Solo qui, qui solamente quel che è disponibile, come funzionano le cose, e giusto poi un appetito a seguire.”
Chi è.
Nasce discretamente e così continua un poco. Gomiti e le differite allontanano, un viaggio che non torna non sapremo se mai.
“Il caldo ad esempio, non puoi dire il caldo caldo. In secoli e secoli fu colui che faceva il mestiere di caldo, come un carattere, un accento, un sorriso, un dente.”
Seguiamo dove, allora.
“L’esilio nei territori dell’aria condizionata lì a rivelarlo qual egli era nella sua natura colpevole, dolosa: il caldo, fastidioso e insistente stalker di ogni e qualsiasi sempre. Ma non vi era alcuna memoria pronta a tradire, né giurisprudenza riguardo l’argomento, calcolabile infine nell’effetto, quando si parlano cose come queste.”
Nel montaggio perde la mandibola delle domande dirette, le predisposte a conoscere. Sviluppa improvviso a dismisura una spalla, quella del bastarsi un gesto, un’espressione affatto laterale. Cosi, disegnato con l’indice dell’immediata sensazione un perimetro, può anche accettare il contenuto che vuoi regalare, ne legge il peso ancor prima che arrivi a destinazione.
“Naturale se la maturità è cose di gioventù chiuse, imballate e spedite, e poi rigiocate, così, in talun piccolo azzardo affettivo, contrattuale, tanto per partecipare alle ribalte di una vita che già un po’ sai, dai.”
Esempio: un intero repertorio di scarpe e passi andati chissà dove lontano, intorno ai quarantacinque, cinquanta, verso un cielo che non tiene lo sguardo e tutto quel che esiste.
“Infine ci sarà nel buio di stanza un interruttore di serietà minima. ‘Sarà dove deve stare’. Intanto testi col palmo oltre lo stipite, lì, dove un tempo del tuo tempo lo avresti trovato subito.”
Accende.
Come alcuni alimenti che sanno star in piedi indipendentemente, non occorrono loro accostamenti, particolari sintesi con altri sapori o tentativi di uno chef, la sua mano non tiene conto del possibile scarto della coppia avversaria e fa un tentativo al limite. Così, visto oltre i vetri e la loro uniforme trasparenza che un tempo lineare ha donato come caposaldo, pare inaffondabile. Pochi leggono che quando un’evoluzione naturale acquisisce definizione – può accadere in seguito a lutto o confronto d’amore – si corre da soli, si colloquia coi vecchi, non si hanno prati da percorrere, prima che un intero impianto condiviso riesca pian piano a capire. Ecco, non ne ha inventato una tecnica, è lui stesso genere, nuovo genere di sé tra due tramonti di epoche.
Sta bene.
“Eppure si può prendere in corsa un corridoio, come usa fare una corrente d’aria, e si
potrebbe dipingere – immagino – una linea certa che va da non si sa fino al tuo ascolto.”
Ma la linea è irregolata nel delicatismo appena percettibile – oggi – di un flauto che non sembra concertare definitivo, ma prova e sale, prova e scende, e ti giunge in un tu appena dismesso dal sonno laddove era – ieri – il quartetto d’archi di un bosco fermatosi per caso accanto alla tua auto nel centro di un’estate come questa, ventotto, trent’anni fa.”
E in pochi secondi risuona. Tutto.
È un teorico del risveglio totale, in fondo, e del pressing alto fin sulla linea dell’alba, elude la melina troppo mediana delle due e delle tre, e verticalizza rapido, quindi, sulle ali della sera. È Grande Olanda e non ha più nulla da dire, sembra.
Entra.
“Mi piacerebbe d’incanto si sciogliessero al caldo i ragionamenti già svolti, le cose
sapute, dilemmi che no, poi evaporassero, si coordinassero in nuvola, nuvola che volasse lontano, ma tanto lontano da non pioverne più. Segue elenco:”
Nell’infinita sala d’attesa che fu quell’estate, solo una voce, solo una a distogliere dal mio tentativo di montaggio un momento:
“Vuole un caffè, dottor Fiankenstein?”
È il suo modo di vedere le cose, penso. Ha nuovi vent’anni oggi, ne è consapevole poiché ha mutato mondo, chiuso il precedente, cercato la responsabilità degli interruttori. Tutti. Anche quando voleva riposare. Oramai senza pigiama e senza vacanze, ha in tasca ancora quell’ironia che lei ha lasciato – e che dire se non ‘grazie’ – e che ti ripete ancora che può andar bene così, che il lavoro vero è stato fatto.
E fu poi Avviatore, che in quanto tale sarebbe stato in grado di tradurre in mappa, un volo ancora senza riferimenti. Forse questo. Una mappa in ampia prospettiva, intera perfino di vocabolario e di legenda. Vocabolarii e legende mobili, adattabili, poco grammatiche e talvolta un po’ naif, come a ogni neonato pionierismo è ancor possibile e concesso. Un pionierismo privato, un pionierismo di quartiere, condominio e sfumature, ma pronto a sorvolare – sfiorando e rischiando – le rocce millenarie delle rendite che oggi riaffiorano davvero tutte, da un oceano asciutto, concrete.
A quel punto nasce l’alba dei servizi – laddove certamente occorrono – per far presto, e una seconda linea melodica delle proposte, se ora mi è chiaro il senso.
“Se non si rivela in un dopoguerra un dopoguerra, dalla guerra c’è altissima una probabilità di non uscire mai più. Chiaro, il ritardo, la differita, il diverso calcolo del tempo. E chiaro, così vale la soglia del dolore. La più bassa, curiosamente, non dove dovrebbe essere, il governo: prende il dopoguerra e lo nasconde, manomette la bilancia degli anni, si compiace di uno sgambetto fatto al mondo. La penso così ricordando una pioggia che illuminò l’aria.”
Sì, mi è chiaro il senso.
“Non sarà il coefficiente di spigolo o insistenza a orientarla, ora?”
Un’intuizione clinica non da poco che riordina perfino il complessivo piano scaffali.
“La strada riconoscila, non perder tempo con il metodo, che è l’alibi di chi non ha capito.”
Sì, una decelerazione mortale nel dessert di un’analisi grammaticale dell’esistenza che non può più permettersi alcuno, più alcuno…
“Arrivederci, arrivederci.”
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