Un mondo in una frase
by Franco Falasca

I suoni si contorcevano come serpenti, come dolori, che alla vista delle cose esultavano ma atterriti dalle distese di tutto quello che ci sovrastava, rallentando, agganciandosi a pensieri occasionali, ad oasi di calma, ad invitanti lusinghe, come distese di margherite o di lampadari in movimento, alternanze di malinconie e allegrie, come se volessero comunicare con me, insistendo, partendo da una caparbietà irriverente, disegnata sui muri intorno a me, senza sapere chi era il servo e chi il padrone, senza conoscere l’inizio e la fine, addolcita in parte da una certa atmosfera illusoria, con un martellamento irreversibile, come una rivelazione criptica, senza che ci fosse il tempo e la volontà di parlarne, una barbarie senza storia, frenata sull’orlo di un precipizio costruito con la paura ma inesistente, con altanenanti tormenti, frammentati, mescolati a roba consueta, senza possibilità di deroghe, pieni di passioni, con nelle orbite la visione di quel pezzo di spazio, come un compositore di suoni andanti, in un perimetro pieno di spezzoni di decorazioni, senza che ci fossero indicazioni di luoghi e di orari, in queste diatribe tra mente e corpo, ricchezza e povertà, furbizia e ingenuità, equilibrio e follia, dignitosa emarginazione e violenta spettacolarizzazione, amando alla follia come dei poveracci o cinici ed eleganti come delle merde, immersi nello studio come misantropi o indegni galoppini retorici e marchettari, religiosi come dei medievali forcaioli o atei come immorali egoisti, pronti ad afferrarsi alla prima fune appesa al soffitto per spostarsi da luoghi impervi a luoghi privilegiati, invidiosi contro l’invidia, moralisti contro la morale, poeti contro la poesia, alla ricerca della perfezione odiata, trascinati da un ambiente all’altro, da una sentenza all’altra, da una incognita all’altra, da un desiderio intenso ad una patologica assenza di desiderio, da un fiore ad una sedia elettrica, vili e romantici, assetati di giustizia ed assetati di prevaricazione, indegni ma orgogliosi, squallidi ed umili, esteti della bellezza e della bruttezza, incognite come le incognite algebriche e trasparenti come il senso comune, retorici per stare dentro la storia umana e anarchici per starne fuori, né incudine né martello, orgogliosi di avere quell’aspetto stanco ma colorato, inutilmente affermativo ma perentoriamente radicato, lì dove terribili allusioni e incredibili credenze distruggevano ogni radicata saggezza, come pecore smarrite sul prato verde, in una santa inquietudine fatta di perifrasi inefficaci, il tutto addormentato ai confini dell’essere che pulsa, a volte visibile ed a volte invisibile, tormentato come tutti gli esseri, ma senza tormento, accanto alle bocche fameliche della evoluzione non autorizzata.

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