Note su Anselm Kiefer
by Giovanni Cardone
In una mia ricerca storiografica e scientifica sulla figura di Anselm Kiefer apro il mio saggio dicendo: Credo che alla base dell’opera di Anselm Kiefer ci sia un forte rifermento filosofico e antropologico, penso a Emanuele Severino il quale evidenzia bene nel suo percorso la fine del mondo o meglio la fine dell’uomo: Ponendosi in contrapposizione al punto di vista tecnicistico, che tende a negare la possibilità che la filosofia si occupi della tecnica, la riflessione di Emanuele Severino intende sottolineare l’esistenza di una stretta connessione fra le due forme di sapere. La tecnica infatti è tanto più potente proprio quanto più ascolta la voce della filosofia del nostro tempo, che ha dimostrato l’impossibilità dell’esistenza di un ordinamento assoluto, assolutamente vero, lasciando così allo sviluppo tecnologico un universo in cui non esistono limiti inoltre passabili e inviolabili. Se la progressiva simbiosi fra pensiero filosofico e operatività tecnica determina così il balzo in avanti inarrestabile di quest’ultima, Emanuele Severino ha però posto l’accento sul problema cruciale della destinazione della società tecnologica, soprattutto in relazione all’uomo. La tecnica, infatti, costituisce lo strumento utilizzato dalle grandi forze che guidano la nostra civiltà per realizzare e affermare la propria concezione di uomo. In questo conflitto è però inevitabile che i confliggenti tendano sempre più ad aumentare la potenza dello strumento e a non intralciare il suo funzionamento. Quando questo accade allora lo scopo di questa forza diventa ciò che dapprima era il mezzo di cui essa intendeva servirsi. In questo modo l’uomo, che era lo scopo del marxismo, del cristianesimo, dell’illuminismo o della democrazia, per fare alcuni esempi, diventa ora mezzo, e in quanto tale muore. In questo senso Emanuele Severino parla di “morte dell’uomo”, affermando però al contempo la coincidenza dell'”essenza della tecnica” con “l’umanità della tecnica”. Se infatti si assume la definizione di uomo soggiacente alle diverse concezioni, come centro cosciente capace di organizzare i mezzi in vista della produzione di scopi, questa concezione di umanità trova il suo inveramento proprio nella tecnica, nella forza cioè oggi dominante per organizzare mezzi in vista della produzione di scopi, o meglio ancora scopo essa stessa di questo meccanismo. In questo modo la tecnica oggi diviene quello che Dio era ieri, e cioè la potenza suprema alleandosi alla quale l’uomo si salva. È possibile, secondo Emanuele Severino, indicare un’ulteriore definizione di uomo alternativa sia a quella delle ideologie che a quella della tecnica: una definizione che si ponga al di sopra della volontà di potenza che tecnica e Dio hanno in comune. E quello che fa Kiefer con le sue opere e con il suo linguaggio ovvero: la fine di cui ci occupiamo è la fine di un mondo, più o meno definibile, che ha ruotato intorno all’industrializzazione e ai suoi prodotti e che oggi possiamo chiamare Occidente. Questo mondo è oggi caratterizzato da cambiamenti sempre più rapidi e imprevedibili, messi in moto da azioni umane, che si manifestano nella forma di alterazioni del clima, perdita della biodiversità, degradazione del suolo, esaurimento delle risorse terrestri. In una parola questa situazione è stata definita Antropocene, un termine coniato negli anni ’80 da Eugene Stoermer, ma reso celebre solo nel 2002 da Paul Crutzen. Egli propose di introdurre l’Antropocene quale nuova era geologica che metterebbe fine all’Olocene, sulla base della definizione formulata e pubblicata per la prima volta insieme a Stoermer nel 2000 secondo la quale a partire dalla Rivoluzione industriale di fine XVIII secolo l’attività umana iniziò a modificare il funzionamento del Sistema Terra a causa delle emissioni di anidiride carbonica provocate dall’utilizzo di combustibili fossili. La nozione di Antropocene cerca di dare un nome a questi ultimi secoli di dominio dell’anthropos sulla natura, ma ha suscitato numerose critiche come vedremo più avanti. La stessa presunta data di inizio di questa nuova era geologica è questione di dibattito; è stato proposto di anticiparla all’epoca della comparsa dell’agricoltura nella Mezzaluna fertile intorno a 11 000 anni fa, o di posticiparla agli anni seguenti la fine della Seconda Guerra Mondiale, periodo definito Grande Accelerazione per via dell’intensificazione di alcuni processi caratteristici della modernità quali l’industrializzazione e l’urbanizzazione. La constatazione principale dei fondatori del concetto Antropocene riguarda la portata dell’azione umana la quale si è rivelata in grado di influenzare la composizione e le funzioni del sistema Terra: l’impresa umana moderna lascerà la sua traccia nelle rocce. A causa del grande impatto antropico sul funzionamento dell’ecosistema, assistiamo oggi alla presenza di numerosi processi i cui effetti potrebbero essere potenzialmente molto negativi per la vita della specie umana così come la conosciamo oggi. Questi processi, che comprendono il riscaldamento globale, l’acidificazione degli oceani, la desertificazione del suolo, la perdita della biodiversità ecc. potrebbero condurre verso una catastrofe climatica, mettendo l’umanità di fronte alla possibilità della sua fine. All’interno della cultura occidentale abbiamo individuato delle eccezioni alla visione temporale dominante basata sulla linearità. Una di queste eccezioni è l’artista contemporaneo Anselm Kiefer. Egli infatti recupera una concezione antica del tempo e dunque della fine. Il suo lavoro può essere utile per preparare l’immaginario per i tempi imminenti, sperimentando inizialmente attraverso l’immaginazione artistica un diverso rapporto con il tempo. le immagini-mito di Kiefer si propongono in tutta la loro portata come emblemi simbolici di una narrazione nuova e insieme antica. Esse rispondono alla necessità di venire incontro alla passività insita in ogni soggetto, a quella culla dell’essere narrati che pervade come una necessità imprescindibile tutta la vita umana Nelle sue opere Kiefer pratica una mitopoiesi, in cui immagini della tradizione, occidentale prima di tutto, acquistano nuovi significati. La storia, come argilla, può essere riplasmata e mostrare delle forme alternative. Kiefer si muove in un eterno presente estraneo al tempo lineare, come se stesse seguendo il monito del nano dello Zarathustra: ‘Tutto ciò che è diritto mente’, mormorò il nano in tono di spregio. ‘Ogni verità è curva, il tempo stesso è un circolo’. Anselm Kiefer venne al mondo tra le macerie della guerra, l’8 marzo del 1945, a Donaueschingen, in Germania. Quelle macerie che egli ha definito come il suo parcoghiochi, diverranno un elemento centrale della sua produzione artistica. Nel 1965 si iscrive all’Università di Friburgo per studiare giurisprudenza ma abbandona questa via l’anno successivo intraprendendo gli studi all’accademia d’arte, prima a Friburgo e poi a Karlsruhe. Successivamente studia a Dusseldorf dove diventa allievo di Joseph Beuys. La sua carriera artistica inizia con un difficile compito: come fare i conti con l’eredità culturale tedesca sulla quale gravano gli orrori del nazismo? Il fatto di essere nato alla fine della guerra gli permette di confrontarvisi dalla prospettiva distaccata dell’estraneo; attraverso una maggiore oggettività è in grado di negoziare con i fantasmi del passato, producendo nuove memorie. Il passato può essere rielaborato e deve esserlo per poter comprendere il presente. Questa prospettiva si riflette nel suo lavoro artistico: l’artista infatti non crea mai ex nihilo bensì plasma una materia già presente trasformandola in qualcosa di nuovo, mai definitivo né stabile bensì destinato a mutare continuamente. Durante gli anni ’50 infatti, la maggior parte degli artisti tedeschi aveva messo da parte la storia recente per dedicarsi alle avanguardie d’oltreoceano oppure ad altre correnti artistiche. L’intento di Kiefer era attuare un distaccamento ironico che allo stesso tempo rappresentasse un forte impegno politico. L’artista riproduce tale gesto cercando di calarsi nell’abito del nazista, non per identificarsi bensì per osservare la potenza del gesto, della postura, con l’unico scopo di comprendere la follia che vi sta dietro. Dal 1992 ha lavorato nel paesaggio bucolico di Barjac, nel sud-est della Francia, in un immenso spazio in cui ha costruito edifici, torri, scavato tunnel, cripte. Successivamente nel 2009 si è trasferito poco fuori Parigi in un enorme container all’interno del quale ha riunito tutti i suoi lavori e materiali, alcuni risalenti agli anni ’70. Nessun’opera o parte di essa è mai stata abbandonata da Kiefer, poiché tutto è destinato a trasformarsi, e il mutamento è continuo, ogni oggetto potrebbe portare ad una nuova idea. Egli si sposta in bicicletta all’interno di uno spazio che dice essere come il suo cervello; gli oggetti corrispondono a sinapsi e talvolta trova nuovi collegamenti tra loro. Le rovine che in questo caso appaiono fonte di fascino sono quelle prodotte dalla civiltà occidentale il crollo della torre di cui parla Kiefer non avviene casualmente, ma secondo la modalità di crollo che il mondo che l’ha prodotta prevede. Non è un caso a nostro parere che Kiefer utilizzi come metafora un elemento tanto paradigmatico dell’Occidente moderno quale l’aeroplano. Le rovine non sono per Kiefer il segno di una catastrofe bensì rappresentano il momento in cui le cose possono rinascere a nuova vita, dismettere la propria forma per assumerne un’altra. Come la notte che ogni giorno si trasforma in un’aurora. Aurora rappresenta il momento in cui la natura si trasforma, in un passaggio graduale in cui la notte muore come oscurità e rinasce come luce. Tra il 2010 e il 2011 Kiefer è titolare della cattedra di creazione artistica al Collège de France; le lezioni da lui tenute vengono raccolte nel testo L’arte sopravvivrà alle sue rovine, citazione che egli sceglie come titolo senza riuscire a recuperarne la fonte, ma che ben si adatta alla sua concezione di arte. Tale citazione infatti esprime la potenza delle immagini in grado di durare nel tempo e di riaffiorare anche dopo l’eventuale distruzione o crollo del contesto che le ha prodotte. Una concezione che sembra richiamare quella di Aby Warburg per il suo concetto di Nachleben ossia di sopravvivenza delle immagini; studiando il Rinascimento fiorentino Warburg nota la ricomparsa di figure e forme (definite pathosformel, ossia formule di pathos, di gestualità espressive di pathos) proprie della classicità greca. Le immagini oltrepassano il tempo come durata ed esistono in un presente fuori dal tempo. Kiefer sembra trasportare questa idea ad ogni sua opera che, anche se abbandonata, non è mai veramente cancellata, può sempre essere recuperata, acquisendo nuovi significati per l’artista, instaurando una nuova dialettica con il presente. La sopravvivenza delle immagini non deve essere intesa come un processo statico: le forme che ritornano o vengono recuperate sono plastiche e in continuo divenire. Il superamento del tempo come durata è ciò che Nietzsche scoprì attraverso il pensiero dell’eterno ritorno nell’attimo convivono passato e futuro, come due sentieri che passano sotto la stessa porta carraia, ma sono entrambi infiniti, quindi l’attimo presente appartiene al tempo cairologico piuttosto che a quello cronologico. Tutte queste concezioni vanno infatti nella direzione di un superamento del tempo cronologicamente inteso, come successione di momenti ed eventi, ed aprono perciò la possibilità di recuperare immagini e forme apparentemente passate, ma potenzialmente sempre presenti, in grado dunque di dare forma e senso a nuovi immaginari e nuove narrazioni. Il confronto con la tradizione occidentale è costante nel lavoro di Kiefer. Mentre la posizione del corpo, che sembra senza vita o nella posizione dello shavasana nella pratica yoga, sottolinea il legame tra il mondo terreno e quello celeste alludendo a un percorso iniziatico che consente di superare la paura della finitezza umana. Le sale centrali del percorso espositivo accolgono una serie di vetrine, una tipologia di opere che l’artista utilizza dalla fine degli anni Ottanta creando microcosmi in cui Kiefer inserisce materiali e oggetti collegati a scritte di suo pugno. Le vetrine creano un ambiente protetto e controllato in cui i materiali contenuti possono esistere nel loro spazio. Allo stesso tempo, rafforzano i temi dell’alienazione e dell’isolamento presenti nell’opera di Kiefer. Lo spettatore è costretto a confrontarsi con l’opera da una distanza, incoraggiato a riflettere sui diversi mondi e simbolismi che convergono nell’immaginario kieferiano. En Sof (L’Infinito, 2016) è dedicata al pensiero cabbalistico e alla mistica ebraica, Das Balder-Lied (La canzone di Balder, 2018) si ispira alla letteratura scandinava, Danae richiama la mitologia classica. Tra i materiali utilizzati spicca il piombo, materiale d’elezione di Kiefer, alla base di infinite sperimentazioni, apprezzato sia per la malleabilità e duttilità, sia per l’associazione a temi alchemici grazie alla sua natura metamorfica. Il cristallo delle vetrine funge invece da membrana che, come spiega l’artista, «è in qualche modo una pelle semipermeabile che collega l’arte con il mondo esterno in una relazione dialettica». In Locus solus (Il luogo solitario, 2019-2023), Kiefer fa riferimento all’omonimo testo del 1914, caposaldo della cultura surrealista, in cui l’autore francese Raymond Roussel descrive opere e congegni irrealizzabili, destinati a rimanere solo immaginati, nel locus dell’impossibile.