Sermo generalis
(Seconda parte)
by Elio Grasso
Una poesia che non può essere altro
(2009)
Quando la poesia, nel suo andare, portandoci nel suo andare, rallenta per qualche istante, perché si possa meglio intenderne il cammino, quando la poesia, infine, ci rilascia, rendendoci di schianto consapevoli del suo passo, allora la verità emerge qualunque sia la nostra condizione d’uomini. Che sia sangue o che sia sonno tranquillo, entriamo in un territorio segnato da abbandoni e contraddizioni, da legami e risentimenti. Un destino che assomiglia all’estate di Nietzsche passata in alta montagna, “vicino alla neve, vicino all’aquila, vicino alla morte”. Allora non è più il tempo per decisioni improvvise: quanto si poteva fare, e si è fatto, resta di fronte alla nostra solitudine. Avendo superato il mondo, ma in qualche modo ancora legati a esso, affrontiamo la sorpresa che le parole della poesia spingono dentro, poiché quelle parole sono all’improvviso diventate il nostro paese. Ci coglie una responsabilità, un dono arreso al nostro arrenderci di uomini immersi in questo mondo, dopo la fine del millennio, imprendibile, perché ormai interamente preso. In una iscrizione che non vuole dire fuga, ma altitudine, aria sottile, luce irresistibile e anche nube di bufera, in un’aurora che ha sapore di armistizio (ma la guerra, resta salda alla notte), la poesia lascia per sempre la debolezza della maternità, e ci rende orfani. Le occasioni, offerte nel luogo dove sostiamo, ci parlano con un “tu” senza equivoci, avvicinano l’identità frammentata, i nostri impossibili brandelli di consenso. Dunque lasciamo che questi tratti di veleno ci vengano strappati, lasciamo che vengano abbattuti per sempre. Se, in questa esperienza, abbandoniamo la mancanza di gusto che preti e psichiatri hanno pericolosamente insinuato nel corso del tempo, alimentando un’insidia quasi insanabile – se, con questa conoscenza della distanza, ci permettiamo qualche istante di sacrificio (ineluttabile come l’atto del resistere), i giri viziosi saranno trasferiti in altri climi, in altre scienze già definite umane ma lontane dalla poesia.
La poesia, dunque, resta in un unico giorno, e l’ultima lettura diventa la prima. L’esigenza si nutre dello sguardo, in qualche modo purificato da misteri presunti e da false oscurità: fenomeni a cui si sottraggono quanti scrivono versi senza assumere potere. Così, più del bisogno di una speranza, si chiede alla poesia di non restare indietro. Come una donna gravida che pensi di continuo alla creatura che le cresce nel ventre, è lecito riuscire a restituirsi alla parola. Giorno dopo giorno, senza mai smettere, senza esaurire l’attenzione, non tanto verso gli atteggiamenti quanto verso i passi che il poeta, con fatica, mette sul terreno. Per avere la possibilità di credere, c’è bisogno di vivere dentro la bonaccia e il terremoto, dentro la calma e il caos, confidando in lucidità e stanchezza, in lavoro e riposo. Combattere il sonno è vedere una lingua nitida, condizione essenziale perché la poesia che c’interessa si offra, pagina dopo pagina, come testimonianza di una voce bassa ma stratificata su altre voci, fiera di attingere a creature più fragili di noi. Non dovremmo costringerci a costruire sul deserto, ma altrimenti aderire al nostro deserto personale, alla malattia di Friedrich Nietzsche, al fiume di Paul Celan, al fuoco di Ingeborg Bachmann. Non per essere ultimi nella morte ma primi in lucidità, sul bordo di ghiaccio che ci è dentro (con l’ascia di un libro, scriveva Kafka).
Sopportare la solitudine non significa addentare la distanza. La verità della poesia ha una sua regola d’educazione che elimina il pericolo subdolo e senza sfida, il pericolo dell’incidente che appartiene a tutti gli uomini. Lo sguardo da unico diventa collettivo, si trasforma in qualcosa che appartiene a tutti. A patto che la mosca non si spaventi di fronte alla finestra socchiusa. A patto che nessuno si senta in un privilegio, in un possesso. La finestra aperta non è un diritto ma un evento divenuto tale per il respiro di qualcuno. Una svolta, un rivolgimento che rende sensato l’ardore, lo slancio, la fine dell’incertezza.
Permettersi una poesia non avvantaggia, ma ci fa comprendere come il senso del vuoto e della colpa siano fratelli, e come chiunque possa avere l’abilità di svolgere il linguaggio astratto e forte di una fuga. La cattiveria sta anche qui, nella facoltà di reggere parole come se fossero altro, parole accreditate di qualcosa che non si possiede. E se l’amore di un poema si esprime nella propria urgenza d’essere, cosa potremo mai chiedere a tutti gli sguardi smaglianti di successo, di orgoglio malevolo? Nessuno di questi sguardi ci spiegherà mai le proprie difficoltà. Ecco perché non si dovrebbe ascoltare chi accomoda un passo per sua indole inquieto, né raggrinzirsi in un verso che sembri il primo. L’amore per la poesia è la svolta che rende quel verso conscio della trasformazione a cui è stato diretto. Per niente di meno ci si dovrebbe distinguere. Stare in un tempo puntuale, puntuali almeno per un istante di perfetta esposizione: così la vita diventa, in quell’istante e in quelli successivi, una tensione occidentale e non un pericolo orientale. A causa di ciò abbiamo paura delle decisioni dei cani d’Europa, non del colera presente nelle strade d’India.
Chi sta fuori da questo paesaggio è riconoscibile, diventa sovrabbondante in un solo verso, talmente isolato da costringere l’orecchio a difendersi dai rintocchi di una campana inutile. Come può un istante unico, fragoroso, portare un progetto all’uomo che ama la parola, la struttura, la frase, il proseguire serrato delle pagine? Quell’istante sarà soltanto un rimbombo dominante e terribile. Un legame fra lingue diverse, oltre che dare una dolce sveglia ai villaggi, tiene allenato il cuore: si tratta di vedere meglio una città dal suo golfo, piuttosto che dalle sue viscere. E se manca il mare, avremo una costa di monti in grado di aprire lo sguardo. E’ sleale chiedere di dimenticare qualcosa che domani verrà, vanitosamente, riportato nel piatto del giorno come una pura scoperta, una lieta novella. Ci sono ritorni vergognosi che appaiono desiderabili dai più, e ad essi molti si rivolgono senza nessuna fatica. Opera e vita sono così disgiunte, e non c’è misura possibile per chi offre e chi chiede. Questa gente è fuori dall’Europa e dall’Asia. Questa gente è, senza dubbio, fuori dal mondo. E dunque, ad essa togliamo accoglienza, se la poesia viene, in definitiva, offesa. Basta, per attuare ciò, la brillante esposizione di qualcosa che sembri svelato per la prima volta. Una falsa prontezza di spirito è più pericolosa della lama adoperata maldestramente. Così apprendiamo, riguardo alla poesia, qualche sciocchezza contrabbandata come superamento di un dubbio, o peggio, come assunzione di una verità.
Ma poi, riconosciamolo, la verità si presenta nei luoghi migliori, in sedi insospettabili, con rapide incursioni dove c’è un distacco netto dalle domande facili e figlie di quei “cieli di tenebra” a cui allude Celan, in una lettera a Hans Bender. Verità in gran parte inesplorata, se chi pone interrogativi facilmente sprofonda in una misura poetica più che povera, marginale rispetto a quanto si dovrebbe fare con la lingua del nostro tempo. Una buona ventura sarebbe ritrovare la resistenza della lingua di un popolo nei poemi che esso riesce a produrre. Ammesso che qualche poeta prenda a cuore il centro che s’intravede in alcuni capitoli della storia poetica. La scomparsa di Mandel’štam non ha mai scusato l’abbassarsi delle insegne di fronte a un’epoca ugualmente nemica. Nessuna scusa verso gli uomini e i critici disposti a lavorare come terroristi del verso, i critici che scavano profonde trincee, opponendo una voce da sopravvissuti, e attingendo a un’oscurità levigata. Come si giustifica una grazia immeritata, come si giustifica una condanna suffragata dal risentimento? La costruzione di un’antologia poetica, per esempio, non dovrebbe fondarsi su argomenti come questi, ma su una specie di diffidenza allegra che torni a vantaggio della lettura, delle voci a cui si trasmette. Alla voce occorre dedicare giusta attenzione, poiché si tratta pur sempre di una questione che sta e vive a una certa distanza: fra chi scrive versi e chi li legge si scopre una forma di mistero, un’onda rapida e incontrollabile. I poeti dalle mani vere (ancora Celan) hanno con sé poesia vera, le loro biografie sono rivelate da ciò che i versi nascondono. I critici d’intelletto dovrebbero porsi in mani che a questo punto non sono altro che la manciata di pagine di un libro. Interesserà la biografia, ma dopo. Stuzzicherà il pettegolezzo, ma ancora dopo, molto dopo. Il critico si affidi a quelle mani diventate parole, senza nulla per sé, sperando in un riemergere dall’abisso. Parlare risulta facile come abbandonarsi alla gravità. Ma è l’acrobata, lo sappiamo, a tenere il segreto e il mistero che permettono di alleggerire il peso. Sfuggire a questo peso, sulla terra, potrebbe essere un buon compito da desiderare.
E’ in un linguaggio svincolato dall’avvenenza che possiamo stringerci le mani, senza ammutolire di vergogna o d’ignoranza. Per molto meno scatta la paura che paralizza le speranze e la voglia di conservare quel poco che resta, dopo il dono portato dalla poesia. Un mucchietto di nulla è facilmente riconoscibile, nel silenzio prodotto da certi libri messi in fila, da certi accostamenti trovati in studi e recensioni. Non confondiamo la riservatezza, cercata da chi rispetta la fine del secolo parlandone a stento, con l’assenza congenita di idee e di spinte. Chi stava, già molti anni fa, in un silenzio carico di significato, è colui che oggi non offre resistenza all’aria che spira. Se andiamo a cercare, in questi scopriamo una parola già storica. Consentendosi un volo di notte, avendo abbattuto i contrafforti fra Europa e Asia, le dogane fra nord e sud, il loro respiro si fa più terrestre che universale, sapendo bene che sarà in una natura fisica di sangue e di roccia che l’uomo avrà vita dal 2000 in poi. Non ci sarà aria facile, e la poesia dovrà dirlo. In vista di questo scenario, certa poesia già lo dice. Ci va di scoprirlo, insieme a una generosità che si distanzia dal caso e si faccia evento. Una generosità che resta fin da adesso su strade lunghissime, vicina alle cose che accadono, che vengono qui per trovarsi e trovare chi ha fiducia disponibile. Il succedersi dei fatti è anche un succedersi di versi consolidati dalla ricerca di una chiarezza. In altre parole, di una salute. Biografia e canto, un tutt’uno. Anche se spesso non è così, si può credere in qualcosa di diverso?
Non esiste una forza totalizzante della letteratura, come non esiste una letteratura definitiva. Ma in essa restano quei poeti che, dopo anni di vagabondaggi, non sono più disposti a vivere di rendita. Poeticamente, la loro verità ha fatto un balzo, e perciò ora appartengono a un pubblico libero di ricevere impronte salutari. Interrogarsi è lecito almeno quanto chiamare a raccolta, secondo curiosità e convinzioni estetiche. Alcuni sono già molti. Evitiamo di trattare con l’autorità che non farebbe spostare una sola mano a vantaggio del libro. Queste carte, meno che mai mute, sfuggono la gara con la vita, eppure vi sono dentro interamente, disponendo di una poesia che non può essere altro, né un’altra.
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