Da Harald Szeeman a Germano Celant: la nascita della figura del Curatore
by Giovanni Cardone
Harald Szeeman personaggio chiave dell’arte contemporanea, e del teatro contemporaneo, a ventitré anni aveva messo in scena una sorta di ‘teatro da solo’, dove aveva realizzato tutto, dai testi alle musiche, alla scenografia, oltre a recitarvi, dedica la sua vita all’arte contemporanea.
È stato sicuramente una delle figure più importanti per la critica d’arte del Novecento e ha segnato e definito, con il suo particolare percorso o forse il modello, del curatore indipendente, libero e da qualsiasi istituzione.
Harald Szeemann organizza la sua prima mostra per il Kunstmuseum di St. Gallen nel 1957: “Dichtende Maler – Calende Dichter”. Dal 1961 al 1969 è direttore della Kunsthalle di Berna, nel 1969 l’anno di “Whe Attitudes Become Form” fonda l’Agency for Spiritual Guestwork e diventa ‘curatore indipendente’: è stato proprio Szeeman infatti a introdurre la figura di curatore così come noi la conosciamo oggi.
Una personalità come quella di Harald Szeemann per la storia dell’arte sta nella sua unicità, nella ricerca di indipendenza da modelli precostituiti e, infine, nell’attenta analisi non tanto di gruppi o movimenti, quanto
piuttosto di moventi e attitudini dell’artista e del fare arte.
In tal senso Szeemann ha incarnato, con grande forza intellettuale e pionieristica, l’immagine del curatore in senso moderno. Nel 1972 è nominato direttore della quinta edizione di Documenta a Kassel dove realizza la
leggendaria Documenta 5. Nel 1973 crea una sorta di museo immaginario che è anche un archivio di idee, che definisce Museum der Obsessionen. Nel 1974 organizza nel suo appartamento di Berna l’esposizione “Großvater – Ein Pionier wie wir”, dove sperimenta nuove forme espositive presentando una collezione di oggetti che appartenevano al nonno, che di professione faceva il parrucchiere.
Dopo la mostra itinerante “Junggesellenmaschinen” era il 1975, mentre nel 1978 inizia una serie di rassegne al Monte Verità nel Canton Ticino. Nel 1980 è co-curatore, insieme ad Achille Bonito Oliva della Biennale di Venezia, dove crea Aperto, sezione dedicata al lavoro di artisti emergenti.
Nel 1981 è nominato curatore indipendente della Kunsthaus di Zurigo. Nel 1992 cura il Padiglione Svizzero all’Esposizione Universale di Siviglia.
Nel 1998 è nominato direttore della sezione Arti Visive della Biennale di Venezia; cura l’edizione del 1999 dAPERTutto e del 2001 Platea dell’Umanità. Pochi giorni dopo la sua scomparsa viene inaugurata al Palais des Beaux-Arts di Bruxelles la sua ultima mostra, “La Belgique Visionnaire”.
La bellezza di una personalità come quella di Harald Szeemann per la storia dell’arte sta nella sua unicità, nella ricerca di indipendenza da modelli precostituiti e, infine, nell’attenta analisi non tanto di gruppi o
movimenti, quanto piuttosto di moventi e attitudini dell’artista e del fare arte.
In tal senso Szeemann ha incarnato, con grande forza intellettuale e pionieristica, l’immagine del curatore in senso moderno. Come afferma Gaia Palombo attitudine è la parola chiave per definire la ricerca di Szeeman
e non a caso la nota mostra bernese si chiama proprio When Attitudes Become Forms. Nel 1969 legittimò nuove correnti artistiche come land art, happening, environment art. Szeemann aveva assunto la direzione del museo nel 1961 aveva soli 27 anni, e lo trasformò in uno degli spazi più dinamici e innovativi.
Le polemiche però lo indussero a lasciare e da allora passò a rivoluzionare anche quella figura che, dopo di lui, si chiama curatore indipendente: in autonomia, fuori di qualsiasi funzione istituzionale, lasciò la propria
inconfondibile impronta sulle istituzioni più importanti, da Documenta, che curò nel 1972, alle Biennali di Venezia nel 1980 inventò con Achille Bonito Oliva la sezione Aperto dedicata ai giovani, Lione, Siviglia
fino ai maggiori musei europei.
Negli anni ’70 viene chiamato a dirigere la Kunsthalle di Berna dove realizza nella primavera del 1969 una mostra paradigmatica e generativa When Attitudes Become Form: Works- Concepts- Processes- Situations-
Informations . Live in your head, in cui venivano messi in luce soprattutto gli aspetti comportamentali impliciti nel nuovo indirizzo concettuale.”When Attitudes Become Form”, è stata sia un evento fondante sia
un modello concettuale e occupa un posto speciale nell’immaginario legato all’arte contemporanea e più nello specifico a quello legato alle pratiche curatorali. È stata la mostra che ha portato fama internazionale al
più importante curatore del dopoguerra, Harald Szeemann.
Una rassegna che conteneva il lavoro di sessantanove artisti internazionali, da Joseph Beuys a Carl Andre da Bruce Nauman a Mario Merz, da Gilberto Zorio a Sol LeWitt, e che, per usare le parole di Stefania Zuliani, ha segnato una tappa decisiva nella storia delle esposizioni del novecento. È stato sicuramente l’evento che ha portato Szeemann a definire la propria figura quale exhition maker indipendente.
A partire da qui Szeemann ha fondato una carriera che è stata presa come esempio da un’intera generazione di curatori. ‘Attitudes’, rappresenta la concezione romantica del curatore come partner dell’artista, il curatore
diventa un attore creativo, fonte di ispirazione per l’artista, che genera idee originali e crea struttura affinché l’opera diventi materia d’esposizione e gesto collettivo. È stato il promotore e il sostenitore della nuova arte
emersa negli anni 1960, in tutta la sua diversità dal concettualismo al post minimalismo americano, dalla Land Art all’Arte Povera Italiana; è stato fautore della sovversione della dicotomia prodotto-produzione elevando il procedimento ad un livello superiore rispetto al prodotto finale sostenendo il desiderio di un’arte che voleva essere libera e lontana dal creare semplicemente oggetti estetici per persone benestanti. In questa occasione gli artisti si sono preoccupati non tanto di esporre l’opera d’arte, quanto piuttosto di mostrare il
processo che ne era alla base, l’intenzione scatenante, coinvolgendo lo spettatore non più in un’esperienza visiva, quanto mentale. Questa sorta di atteggiamento di ribellione verso gli schemi tradizionali del fare arte
li portò a rifiutare il semplice prodotto finito, definitivo, magari diveniva esclusivo oggetto di lusso, in favore della messa. La mostra verrà poi riproposta in un senso spiccatamente post moderno da Germano Celant, che
con la complicità di Thomas Demand e Rem Koolhaas ha curato per la Fondazione Prada la riproposizione di questa seminale esposizione a Ca’ Corner della Regina. Secondo Palombo parti irrinunciabili per Szeemann
sono sempre state l’interpretazione e l’analisi delle caratteristiche umane dell’opera d’arte, idee che per Szeemann precedono i concetti di stile e di riconoscibilità. La “messa in scena”, l’allestimento, costituiscono
la cifra riconoscibile dell’attività di Szeemann.
Infatti, sempre secondo Palombo, più che tramite i testi, Szeeman ha proceduto e ha comunicato attraverso le mostre, le scelte delle opere e degli artisti e il loro particolare accostamento. Sulla base di questo assunto critico si è basata la preparazione della V edizione di Documenta, a Kassel nel 1972, destinata da Szeemann alla concretizzazione del concetto di “Opera d’arte totale”. L’idea ha la stessa definizione che diede Richard Wagner delle sue opere, forse è stata fraintesa nulla di monumentale e retorico nell’intenzione di Szeemann, ma al contrario il costante lavorio intellettuale di mettere in scena l’ “utopia”
dell’arte, che è la comprensione, la rappresentazione “totale” del mondo attraverso l’opera. Un altro momento importante che caratterizza il percorso di Szeemann arriva nel 1980, anno in cui propone, con Achille Bonito Oliva, la sezione “Aperto” alla Biennale di Venezia. Questa sezione era dedicata alle
esperienze scarsamente consolidate di giovani artisti, e che poi diventerà una costante di tutte le successive edizioni della Biennale, sin quasi a soppiantare la tradizionale mostra principale. Nel 1999 cura l’edizione della Biennale in cui allargherà definitivamente i confini del mondo dell’arte includendo quasi tutti i paesi emergenti, compresa la Cina: non a caso la prima edizione del nuovo millennio si sarebbe chiamata “Platea dell’Umanità” e consoliderà la presenza di artisti provenienti da aree del mondo tradizionalmente non incluse
nella produzione di arte contemporanea. Come afferma Zuliani, Szeemann amava definirsi un exibition maker, ovvero un creatore di mostre, più che
un critico o storico dell’arte. Un’altra definizione che dava di se stesso era quella di curatore indipendente senza casa, disposto com’era a confrontarsi con i più disparati linguaggi dell’arte e intento a sperimentare qualunque declinazione dello spazio espositivo. Affidato ad alcune pagine intense e folgoranti ma anche
soprattutto alle sue scritture espositive, alle mostre in cui ha dato forma, sempre diversa ma sempre riconoscibile, al suo personale museo delle ossessioni, il contributo di pensiero di Szeemann ha la qualità
della rivelazione e la precisione del progetto.
Sensibile allo spirito dei luoghi ‘ ecce aedificium, ecce exposition’ ripeteva spesso sempre attento alla voce, irripetibile, delle singole opere ma anche al vissuto degli artisti, con i quali ha condiviso l’esigenza di mettere
in scena le tracce e le immagini belle, irrinunciabili, mitologie individuali, Harald Szeemann ha interpretato il lavoro critico come una pratica creativa che non si limita ad analizzare il significato dell’arte ma lo rende attivo e lo trasforma. Un risultato che egli ha spesso ottenuto assumendosi il compito, certo ambizioso, di farsi artefice del confronto, nello spazio di dialogo della mostra, tra le opere e ciò che non è immediatamente riconducibile alla definizione di opera, mettendo a reagire, come amava dire “quella magica cosa chiamata arte con altre magiche cose”. Szeemann, secondo Zuliani, ha quindi sicuramente segnato uno dei percorsi più interessanti della critica d’arte del secondo Novecento, inaugurando la nuova stagione del curatore indipendente, individuando nell’esperienza dell’esposizione il fulcro della sua appassionata e indisciplinata
attività, insofferente ad ogni vincolo istituzionale ma anche metodologico.
Convinto che l’arte fosse, innanzitutto, energia rigenerativa, una tensione utopica irrinunciabile in grado di trasformare o, almeno, di mettere in movimento la realtà, per suscitare risposte inattese, Szeemann nel corso
di mezzo secolo ha abitato i luoghi più prestigiosi dell’arte presente nei i musei, europei e internazionali, le grandi rassegne, da Documenta alla Biennale di Venezia con la forza del suo spirito insubordinato, poco disposto a farsi imprigionare dalla necessità di spiegare tutto eppure rigoroso nella ricerca dell’incontro, necessario quanto impossibile, fra arte e vita.
Negli ultimi anni mi sono trovato più volte a visitare il rifacimento di una mostra d’arte contemporanea. Non si tratta di riproporre un movimento, ma di essere il più fedele possibile alla mostra originale, che per un motivo o un altro ha segnato un cambiamento storico artistico.
Spesso ci sono delle differenze, dovute all’adattamento delle opere agli spazi espositivi. Che gli artisti del passato rivisitassero un’opera di un altro artista è risaputo, ne sono esempio casi celebri come Picasso che a settant’anni interpreta le opere di: El Greco, Courbet, Manet, Delacroix, Velazquez. Oggi sono i curatori che si cimentano in questa impresa fornendo allo spettatore una ricostruzione storica con pezzi originali. Nel 2006 il MADRE (museo d’arte contemporanea Donna Regina) ospitò una grande antologica dedicata
all’artista Jannis Kunnellis a cura di Eduardo Cicelyn e Mario Codognato. Un progetto espositivo difficile, costoso e altamente raffinato. I due curatori sono riusciti nell’impresa, portando all’interno delle sale museali opere risalenti agli anni Sessanta nell’intento di restituire al pubblico una grande quantità di lavori.
Oppure nella mostra fatta l’anno scorso dedicata a Marcello Rumma ovvero, I sei anni di Marcello Rumma dal 1965- 1970 a cura di Gabriele Guercio e Andrea Viliani e nel contempo mi sovviene la mostra When Attitudes Become Form: Bern 1969 /Venice 2013, rifacimento della mostra del 1969 curata da Harald
Szeemann , proposta dalla Fondazione Prada e curata ed allestita da Germano Celant in dialogo con Thomas Demand e Rem Koolhaas in Ca’ Corner della Regina ha ottenuto un grande successo per la sua concezione
totalmente radicale. Grazie a un complesso lavoro per il recupero delle opere allora esposte, per l’accurata ricerca di tutti i materiali allora adoperati per la ricostruzione fedele degli spazi parietali e pavimentali, per il rispetto delle relazioni fra opera e opera, opere e spazio si è compiuto una sorta di innesto di una realtà in un’altra, rievocando emozioni e sollecitazioni in un clima epocale mai così arditamente concepito. La mostra di allora, nella Kunsthalle di Berna che era il segno di una vitalità ardita e innovativa si apre,grazie
a questa speciale relazione, a nuove letture ed aperture. Incarna un nuovo linguaggio messo in essere dal curatore.
È del 30 settembre 2013 l’articolo di Massimo Mattioli su Artribune che ci informa che Miuccia Prada e Germano Celant Presidente e Direttore della Fondazione Prada riceveranno due prestigiosi riconoscimenti da
parte dell’Indipendent Curators International di New York, in occasione dell’Annual Live& Silent Auction, per l’attività internazionale relativa all’arte contemporanea e per la mostra When Attitudes Become Form:
Berm 1969/Venice 2013” che è sulla storia delle mostre d’arte e sull’attività dei curatori indipendenti. Per Miuccia Prada il Leo Award, intitolato a Leo Castelli e per Germano Celant l’Agnes Gund Curatorial Award, dedicato ai curatori distintisi per la qualità delle mostre d’arte e per il contemporaneo. La Fondazione Prada è anche seguita con interesse per la costruzione di una nuova sede a Milano su progetto da Rem Koolhaas e del suo OMA. Dopo la costruzione di una torre di sette piani sarà la volta di un auditorium e poi
degli spazi per mostre temporanee.
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