Intervista a Vincenzo Lagalla
by Francesco Aprile
1. Il periodo artistico nel Salento, prima dell’arrivo a Genova nel 1985. In quale contesto si muove, e quali linguaggi caratterizzano la sua attività?
Il contesto è quello della sperimentazione degli anni settanta che si riverbera negli anni ottanta. Per sperimentazione intendo, non solo, il consolidato modello degli anni sessanta che permette di uscire dagli schemi tradizionali. Avere, quindi, una differente visione e dare nuova collocazione all’oggetto quotidiano entrato a far parte, dopo Marcel Duchamp, della pratica artistica. Lo stesso approccio viene usato con la parola e il linguaggio in generale, contesto in cui opera Francesco Saverio Dòdaro.
Per quanto, mi riguarda, pur utilizzando diversi medium (Fotografia, Pittura, installazioni…) l’elemento comune è l’ironia, la quale, destabilizza l’opera/oggetto fino a far perdere la sua funzione.
Nel periodo salentino mi muovo fondamentalmente in tre direzioni:
-Fotografia (performance realizzate da professionisti e sequenze fotografiche realizzate da me)
-Costruzione di oggetti
-Costruzione di libri-oggetto
In tutti e tre gli ambiti compare la parola combinata in varie forme con oggetti e immagini. L’aspetto verbo-visivo riveste per me in quel periodo una grande importanza e per lungo tempo è stato mio riferimento primario, era ancora il periodo della “Poesia visiva” con i suoi artefici (a Genova Mignani era uno di questi).
2. L’arrivo a Genova e le collaborazioni con Rolando Mignani e gli altri esponenti del gruppo genovese, dunque Bucci, Di Cristina, Brunetti, Galletta, Terrone. È di questo periodo il passaggio alle installazioni? Come rapporta il suo percorso artistico con le implicazioni spaziali che assume l’opera?
Mignani, protagonista della Poesia semiotica insieme a Carrega, è stata la prima persona che ho conosciuto al mio arrivo a Genova su indicazione di Dòdaro. Entrambi a quell’epoca erano impegnati nella realizzazione di riviste caratterizzate da un unico orientamento linguistico: Dòdaro produceva “Ghen” a Lecce e Mignani “Ghen Liguria” a Genova in linea con la rivista di Dòdaro con cui era in contatto.
Ho un ricordo nitido.. di una sera d’autunno , quando sono andato da lui la prima volta; sono rimasto colpito dal suo ”naturale imbarazzo” …. siamo scesi a bere un caffè al bar e da quel momento è nata una relazione artistica e umana senza tempo.
Con Mignani è arrivato Di Cristina, e Bucci, il più giovane del gruppo, bravo con la matita e con la penna, tanto che la maggior parte dei testi che mi riguardano li ha scritti lui. Insieme, già l’anno dopo il mio arrivo a Genova nell’86, abbiamo presentato alla Sala Cambiaso di Palazzo Meridiana la mostra “Progetto per una dimora inabitabile” (titolo dato da Rolando e dedicata a Martin Heidegger), dove per la prima volta realizzo una installazione: un libro aperto le cui pagine hanno una dimensione di mt.2 x 2,50 e con al centro, sospesa tra le pagine, una stadera che pesa delle ossa. Lo spazio tridimensionale, diventa per me, da quel momento quello che la tela è per il pittore, “l’ambito su cui intervenire”, privo però di un perimetro che ne traccia i confini.
I precedenti lavori del periodo salentino, si muovono nello spazio; nonostante, appesi al muro, sono oggetti tridimensionali (Clessidra, Orgasmo, Edificio…) ove si denota già l’aspetto del dentro/fuori l’opera; lo spazio esterno all’opera entra dentro l’opera attraverso buchi e fessure praticati o già esistenti ai supporti dei lavori. L’opera, per sua parte, si estende oltre il suo perimetro prolungandosi nello spazio circostante.
Questa estensione, non appaga ed è percepita da me ancora non sufficiente …sperimento così nell’installazione l’apertura degli schemi esistenti ed elimino le rigidità della rappresentazione. In questo modo viene dato, in senso letterale, spazio alla “possibilità” spesso collegandola agli aspetti sociali, culturali e politici del periodo. L’artista più che interprete diviene “filtro” nel mostrare cose ed eventi nudi, privi di quella patina del quotidiano che tende a nasconderne l’essenza (Duchamp insegna). L’aspetto ironico rappresenta il reale intervento dell’artista, anche questo ha fatto Duchamp, quello che non ha potuto fare è vivere la nostra epoca, così complessa tra globalizzazione e sviluppo insostenibile, ma è nella complessità che si aprono gli spiragli per “il fare artistico” rendendola visibile a tutti attraverso “il lavoro estetico”.
Gli altri esponenti del gruppo “Il lavorio dell’artista – Un percorso genovese – 1977/1989”, mostra presentata a Genova nel 2013 e di recente portata ampliata al Castello Carlo V di Lecce, li ho frequentati saltuariamente in quanto amici di Rolando.
3. Nelle sue opere la parola è spesso in relazione ad oggetti dell’uso quotidiano, mostrando slittamenti di senso, aperture improvvise, vie di fuga, che al fruitore restituiscono, fra l’altro, la dimensione concreta, appunto oggettuale, della parola nella quotidianità, mostrandola in un rapporto di continuità con gli oggetti utilizzati. Eppure proprio questa materialità si mostra quasi necessaria per la divaricazione del senso. Il gioco delle ambivalenze, della polisemia, sembra mostrare l’opera come un alternarsi continuo fra scena e retroscena. Esempi di questo percorso sono, fra le varie opere, le installazioni Ghigliottina (la parola Langue in doppia accezione) e Peccato originale (con il doppio riferimento etimologico di “melo”, malum-melos) eppure già ravvisabili ad esempio nei Testi Visivi (Io Me- -Reelin g, esposti nel 1985 a Lecce e Bari). In altra istanza, oggetti e polisemia dei linguaggi costruiscono un dialogo costante col tempo: attraversamento, sconfinamento (di tempo e genere), apertura o chiusura, inizio-fine-continuità. È il campo della vita, dell’esistenza, quello dell’opera?
La parola è sicuramente uno degli elemento più importanti che compare nei miei lavori.
Quando ho parlato con Rolando del mio progetto dal titolo “TU BI, scrittura fonetica dell’essere” mi ricordo che si è divertito molto e per un lungo periodo tutte le volte che ci siamo incontrati mi salutava ghignando con “To be… tu bi”.
“La parola” è stata costretta da me a convivere con oggetti e immagini con cui non aveva nulla a che spartire. Come sempre è l’ironia che crea il terreno comune, come nell’opera “Pane quotidiano” in cui parole ritagliate da giornali quotidiani vengono incollate su una grossa pagnotta “imbalsamata”, tutto questo rimanda all’esistente, con cui bisogna fare i conti giorno dopo giorno e in definitiva “l’esistenza” più che ambito di sviluppo dell’opera è l’opera stessa.
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